America latina, la recensione: i d’Innocenzo peccano di superbia con un thriller che si crede più intelligente di quel che è

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Autore: Elisa Giudici ,

Dopo i successi di critica di La terra dell’abbastanza e Favolacce, i gemelli Damiano e Fabio D'Innocenzo sapevano che ci si aspettava molto, moltissimo da loro. La sceneggiatura di America Latina dicono di averla buttata giù a Berlino in attesa del palmarès che li ha visti trionfare con il loro secondo film (Orso d'argento), per poi tornare a lavorarci per oltre un anno, nella speranza di rendere perfetto il loro thriller psicologico sulfureo. L’impressione netta che si ricava dalla visione di questo film è un peccato di hubris, una totale mancanza di pragmatismo e umiltà nel percorrere un canovaccio sin troppo stereotipato nel genere del thriller psicologico, sottovalutando l’intelligenza e l’esperienza dello spettatore.

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Il titolo fa riferimento a Latina, dove è narrata questa vicenda di teorico squallore provinciale che potrebbe essere in realtà situata ovunque, tanto inconsistente e vaga è la cornice del film. L’unico elemento che davvero funziona nel film è la splendida location in cui è ambientato: una villa enorme nel nulla della campagna latina, sublime della sua brutale bruttezza e scarsa funzionalità. Un grosso scivolo d’ingresso curvo abbraccia vanamente un edificio che per colori e forme ricorda una sgraziata colonia estiva più che un focolare domestico. Qui vive Massimo Sisti con la sua famiglia. Elio Germano mette tutto sé stesso in questo dentista di successo economico ma dall'interiorità scarna. Da solo però non riesce a spiegare perché venga inquadrato come volgare, gretto, quasi cafone, in una pellicola molto giudicante nei suoi confronti ma incapace di spiegare perché.

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La trama di America Latina

L’unica nota sublime della vita di Massimo è la famiglia formata da moglie e due figlie che paiono visioni stilnovistiche, angeli botticelliani. Lunghe chiome fluenti e biondastre, abiti vaporosi, risolini complici: Massimo adora “le sue donne”, ma non sembra comprenderle davvero ne avere un rapporto reale con loro. Ben più terrena e concreta, ma ugualmente priva di parola e personalità propria, è la ragazzina (Sara Ciocca) che scopre all’improvviso nello scantinato di casa, legata a un palo. La bambina ha una reazione terribile di fronte a Massimo che, sbigottito, non si capacita di come possa essere finita nel sotterraneo di casa sua. Qualcuno l'ha rapita e nascosta lì...perché? Sta per chiamare la polizia, ma poi esita: chi crederà alla sua versione secondo cui una ragazzina per un tempo indefinito è rimasta imbavagliata e legata nella sua cantina, senza che lui ne sapesse nulla?

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L’uomo dunque decide di tenere la sua famiglia all’oscuro di tutto e fare indagini per conto proprio, nella crescente convinzione che qualcuno a lui vicino (un amico, un familiare, il padre odiosissimo) stiano tentando d'incastrarlo. Massimo comincia quindi a diventare paranoico, fino a venir spinto da dubbi continui sull’orlo della follia, arrivando persino a dubita di sé stesso.

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Perché America Latina è un fiasco

I D’Innocenzo sono in buona compagnia: il thriller psicologico è un genere di equilibri delicati e, per ogni grande film memorabile, sono decine i caduti sul campo di battaglia, tra cui figurano nomi eccellenti come Martin Scorsese (Shutter Island) e Steven Knight (Serenity). La difficoltà principale è decidere quanto svelare al pubblico e quando, tentando di mantenerne l’interesse senza però fargli capire anzitempo la risoluzione. Ogni film di questo filone poi deve prendere una scelta a monte: se calarsi in questo genere a puro scopo d'intrattenimento o utilizzare queste atmosfere sinistre per passare un messaggio più complesso, profondo. Il tragico fraintendimento di America Latina è di atteggiarsi come un film del secondo tipo avendo disposizione materiale per cavare a malapena un lungometraggio del primo. 

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Nonostante i D’Innocenzo giochino parecchio sporco - fornendo alcuni elementi che negano in parte l’esito altrimenti scontato del film - America Latina si risolve in uno dei colpi di mano più vecchi e prevedibili del manuale, divenuto quasi proverbiale. Quel che è peggio, sembra che il film si regga interamente su questa rivelazione, senza avere davvero nulla da dire in merito. Se il naufragio non è totale è perché il loro angelo custode Elio Germano fa tutto il possibile e ancor di più per dare corpo e disperazione a questo protagonista, verso cui i D’Innocenzo scagliano un astio giudicante immotivato, con uno sprezzo indiretto ma non meno corrosivo verso la sua professione e i suoi desideri. Massimo è un uomo arricchitosi ma dal poverissimo universo interiore: perché non indagare questa circostanza piuttosto che giudicarlo sottilmente sin dalla prima scena per questo motivo?

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Il protagonista viene indagato sommariamente nella sua psiche, a cui non sembra mancare nessuno dei presupposti freudiani dell’uomo frustrato nella sua virilità, circondato da donne angeliche o demoniache, intercambiabili, che hanno funzione meramente d’atmosfera o decorativa mentre per più di un motivo i loro personaggi dovrebbero fornire una certa concretezza. Impossibile spingersi oltre in altri paragoni senza svelare il colpo di scena, un labilissimo pretesto su cui si regge un film inutilmente appesantito di visioni, immagini allegoriche, luci e cromatismi ricercati: se non c’è la sostanza né il montaggio di Walter Fasano né le musiche dei Verdena possono dare un senso a un'operazione che avrebbe avuto decisamente più senso in chiave meno saputa e più pragmaticamente rivolta e intrattenere il pubblico. 

Commento

Voto di Cpop

35
Il guaio delle aspettative: che per deluderle ci vuole pochissimo, specie quando il precedente successo finisce per dare un po’ alla testa. America latina non ha molto da dire ma si crede raffinato.

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