Spaceman, recensione: Adam Sandler è un astronauta in crisi nel gioiello sci-fi di Netflix

Autore: Paolo Falletta ,

There’s a starman waiting in the sky, he’d like to come and meet us but he thinks he’d blow our minds" era il 1972, David Bowie cantava di esseri dello spazio, tra galassie e stelle, alieni con un messaggio da consegnarci. Se c’è uno starman nel nuovo film di Johan Renck, di sicuro non è lo Spaceman di Adam Sandler. Lo Ziggy Stardust del nuovo film targato Netflix si chiama Hanus, ha sei occhi e otto zampe e non è adatto agli aracnofobici.

Di cosa parla Starman?

Siamo nello spazio aperto, ai confini della galassia, nelle periferie di Giove. L’astronauta Jakub Procházca è sulla sua navicella da 189 giorni, di fronte a sé un’ipnotica nube viola: analizzarla è l’obiettivo, spiegare i misteri dell’universo l’auspicio. 
Jakub lo sa, è l’uomo più solo al mondo perché è il più lontano, le tecnologie di comunicazione non ne leniscono la malinconia. È un eremita col culto dell’oltre, auto-isolato da tutto e da tutti in nome della scoperta, un Ulisse navigatore della Via Lattea, con una Penelope che non può più attendere. 
Sua moglie Lenka non attiva il Czech Connect da un po’, è determinata ad interrompere il collegamento con Jakub. La donna porta in grembo un bambino, ha i piedi ben saldi sulla Terra ma è ugualmente disorientata, soffre dello stesso malessere dell’astronauta che l’ha abbandonata: la solitudine. 
È con l’inatteso aiuto di un enorme ragno alieno che Jakub proverà a riconciliarsi con sé stesso, con il proprio passato, con l’amore.

Spaceman si inserisce tra le pieghe di una feconda fantascienza low concept, di un soft sci-fi che è terreno fertile per la riflessione filosofica, raccoglie l’eredità del Moon di Duncan Jones e ci rinchiude con il suo protagonista all’interno della claustrofobica navicella che lo ospita. I corridoi ci asfissiano, i portelloni ci opprimono, gli abitacoli freddi e spigolosi ci angosciano insieme alla routine monotona e abulica di chi la abita. La macchina da presa indugia sul volto stanco e provato di Adam Sandler, sull’espressione smorta di chi si è perso nel limbo di una quotidianità angosciante e senza punti fermi. 

Un incubo ad occhi aperti

Il ragno gigante che Jakub ribattezza con il nome di Hanus sembra uscire direttamente dai peggiori horror, dagli incubi paranoidi figli di Alien che l’astronauta concretizza nella sua turbata attività onirica. Spaceman strania lo spettatore costringendolo ad accettare una visione respingente, privando il mostro della sua mostruosità, dell’istinto omicida che l’immaginario cinematografico gli ha assegnato, dell’etichetta di predatore che non si scolla di dosso e che ci mantiene in tensione anche dopo aver assodato che l’aracnide non ha intenzioni ostili. In questo senso Spaceman gioca con i generi, lo faceva già Jaroslav Kalfar con il romanzo da cui il film è tratto, ma nella trasposizione su schermo di un essere tanto repellente, oggetto di una paura innata, di una repulsione atavica, sa di poter indurre uno stato di ansia perpetua, di poter continuare ad alimentare l’inquietudine. 

Ma Hanus diventa veicolo e cicerone per una gita nel subconscio, intrappola Jakub nella vischiosa tela dei suoi ricordi, gli inietta un veleno che ne stimola l’attività mnemonica, si fa promotore di un processo doloroso e rivelatorio, di un viaggio epifanico tra verità occultate e timori insabbiati. E nell’excursus che sradica Jakub dalla propria comfort zone e dal suo alibi di uomo ambizioso, che lo spoglia delle sue infrastrutture, che lo trascina faccia a faccia con i propri errori, Hanus non perde tempo ad innescare una serie di riflessioni sulla natura umana.

La sua è una voce imperturbabile (che nella versione originale è quella di Paul Dano) che sembra quella di un grillo parlante dal tono inalterabile, di una coscienza che non grida ma interroga, che non si arrabbia ma incalza: ci si chiede spesso se Hanus sia reale o provenga dai luoghi più reconditi della mente di Jakub, se la sua apparenza non sia prodotto dellimmaginazione dell’astronauta sopraffatto dalle allucinazioni.

Ma le sue sono constatazioni da un altro mondo, di un osservatore, di chi scova tutte le contraddizioni dell’essere umano che fugge dalla realtà, che fa promesse frangibili, che accoglie i sensi di colpa e si illude di poter riannodare il tempo ed acchiappare il passato. Hanus è il tarlo che si insinua nella memoria per ricordarci che non siamo che una collezione di souvenir, una proiezione del pensiero autoanalitico di Jakub, un essere dai contorni onniscienti plasmato dalle esperienze intergalattiche, un novello Roy Batty di materia organica. 

Storia di un matrimonio...nello spazio

Spaceman è prima di tutto la storia di una rottura, della presa di coscienza della propria identità attraverso l’indagine dei rapporti, della sua emanazione nello spazio probativo della dimensione amorosa. Johan Renck asservisce la fantascienza all’interiorità di un astronauta che galleggia smarrito nel suo microcosmo, all’intimismo della ricostruzione emotiva del suo protagonista, di un Jakub che deve far pace con il passato rivalutandone i frammenti. Una fantascienza metaforica che fa della nube violacea un McGuffin che diventa mezzo per trascendere, per approdare ad una visione d’insieme, per permettere a Jakub di ricongiungersi con il tutto, con le sue promesse, i dolori, le espiazioni, con la loro persistenza e la loro fugacità insieme, con il loro essere permanenti e vacui. 

Adam Sandler si scrolla definitivamente di dosso la maschera dell’attore comico dopo la straordinaria prova di Diamanti Grezzi, lo fa prestandosi luttuoso e minimalista ad un film intriso di una dolce malinconia, con la macchina da presa che gli si incolla addosso, che lo segue protesica e intrusiva, abbandona ogni pretesa di fissità lasciandosi andare al movimento sospeso e costante che riproduce la mancanza di gravità, che ritrova una staticità disturbata nelle visioni deformate di ricordi che sopravvengono e si sovrappongono alla veglia, che traboccano nella realtà in una serie di immagini simboliche pregne di significato. 

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Spaceman è, insomma, un gioiellino della fantascienza più poetica, un invito all’empatia e all’altruismo, a rivalutare le priorità della vita, a scardinare le proprie convinzioni e regolare la propria miopia, ad uscire dall’involucro e guardarsi da un’altra prospettiva, una scomoda, depurata da ogni cavillo rassicurante, lucida e aliena. 

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Commento

cpop.it

80

Il nuovo film con protagonista Adam Sandler è uno sci-fi filosofico che indaga sulle contraddizioni del pensiero umano, riflette sul tempo e sui ricordi indugiando sull'interiorità del suo protagonista. Spaceman è la storia di un matrimonio in frantumi che Jakub tenta in extremis di rimettere in sesto, lasciandosi guidare tra i meandri della memoria da un ragno gigante che sembra sapere di cosa ha bisogno. Un film dolce e malinconico che inquieta con lo spettro della solitudine e rassicura con l'idea che c'è sempre tempo per fare luce sui propri errori.

Pro

  • Riflessioni sulla natura umana interessanti
  • Un Adam Sandler in stato di grazia
  • Una regia che si adatta agli spazi
  • Il film gioca con i generi...

Contro

  • ...e disorienta sui toni
  • Filosofia un po' semplicistica
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