Civil War è la foto dell'America che tutti dovremmo conoscere

Autore: Manuel Enrico ,

Mentre esci dalla sala dopo aver visto Civil War, guardi lo smartphone e nel feed di notizie scopri che un uomo si è arso vivo davanti al tribunale newyorkese in cui si sta processando Donald Trump, ex presidente legato a momenti di spaccatura nell’America contemporanea e, incredibilmente, candidato nuovamente alla Casa Bianca. Un corto circuito mentale, la sensazione che la distopica visione di Alex Garland abbia varcato i confini dello schermo e sia dilagata nel mondo reale.

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Basterebbe questo a consacrare Civil War come uno dei film più graffianti e necessari del nostro presente. Difficile non ricordare come, meno di quattro anni fa, una folla esaltata assaltava Capitol Hill, pronta a insorgere in difesa di un presidente che aggirava mandati e leggi, aizzando le folle con facili populismi e sprezzo di un sistema che si auto-definisce la più grande democrazia del mondo. 

Civil War racconta l'America divisa dall'occhio di una fotocamera

Civil War sembra essere l’evoluzione acida e spietata di quello spartiacque della vita politica americana, ne inasprisce le conseguenze e pone lo spettatore di fronte a una realtà a cui non può sottrarsi, lasciando un dubbio serpeggiante: quanto manca a tutto questo?

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Non confondiamo Civil War con un film politico. Garland non menziona eventi reali, ma si limita ad accennare rapidamente il motivo di questa secessione, identificando il punto critico nella negazione del limite ai due mandati presidenziali tentato dall’inquilino della Casa Bianca interpretato da un Nick Hofferman sontuoso. Non serve altro a questo ritratto di un’America spezzata per dare il necessario contesto alla ricerca di un gruppo cronisti della storia nella storia, ossia intervistare e fotografare il presidente prima che venga catturato e ucciso.

E qui, entrano in scena i veri protagonisti.

Quattro voci per raccontare un dramma

A ben vedere, non sono gli States i protagonisti di Civil War. Quello è lo scenario, il contorno che avvolge quattro figure che cercando di trovare un senso in questa tragedia, appellandosi alla sola cosa che ancora riconoscono come barlume di normalità: raccontare una storia, anzi, raccontare la Storia.

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Un dogma che viene sbattuto in faccia duramente dalla veterana Lee Smith (Kirsten Dunst) alla pivella Jessie (Cailee Spaeny), al primo contatto con la dura realtà del lavoro di fotografo di guerra:

Noi non ci facciamo domande. Noi registriamo, affinché altri si facciano domande

Ma dove finisce l’individuo e inizia il fotografo? Fin dove si possono soffocare le proprie emozioni, per non perdere lo scatto giusto e dare al contempo al mondo un’immagine che mostri quanto folli possiamo essere? Sono queste le domande che guidano Garland, tanto nella scrittura della trama quanto nel focalizzare la nostra attenzione, pur preservando un linguaggio il più possibile distaccato e improntato alla cronaca.

Una sfida interiore che viene giocata sulla pelle della veterana, indurita da scatti rubati in zone di guerra in giro per il mondo, e su quella di un’aspirante fotoreporter, illusa dal fascino di questo lavoro e inconscia di ciò che la attende. Civil War abbandona il senso di cronaca di una ribellione civile per concentrarsi su questa dicotomia, sul portare agli estremi quel confine emotivo, quel muro dell’anima che separa la persona dallo scatto perfetto.

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Ma nessuno può rimanere indifferente troppo a lungo davanti all’orrore, non si possono chiudere gli occhi quando sono proprio questi il tuo dono, il tuo strumento per raccontare al mondo cosa accade. Lee Smith paga pegno di una vita a contatto con la ferocia umana, mostrata in flashback strazianti, vedendo nella spontaneità e nell’ingenuo entusiasmo di Jessie una catarsi che la porta lentamente a distaccarsi da sé, sino alla morte di un mentore che segna il suo crollo definitivo.

Sotto questo aspetto, Civil War è un racconto di convergenze e divergenze. Di intrecci e condivisione di un ruolo, ma di progressivo distacco, dal sé emotivo e da ciò che circonda questo quartetto in cerca della grande storia, attraversando una nazione che sta scrivendo la propria Storia.

Garland vuole raccontare la loro epopea, fatta di perdita di illusioni e di sanguinose scoperte. Vuole metterli a contatto con una dimensione domestica che risulti ancora più spietata e violenta di quanto visto altrove, perché nulla può ferirci maggiormente di realizzare quanto il male visto lontano da casa possa distruggere il nostro mondo.

My city of ruins

Da cronisti di guerra inviati nel mondo, a testimoni della caduta della propria nazione. La sensibilità di Garland lo porta ad allontanarsi rapidamente dai grandi centri abitati, per mostrare una realtà americana distante, tornando a quegli angoli interni e rurali già sviscerati in Nomadland e Elegia Americana, mettendo spietatamente a nudo una mentalità greve e nascosta all’esterno in nome di una American Dream idealizzato.

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Nella nazione del secondo emendamento, dove tutti hanno il diritto a possedere un’arma, si formano posti di blocco illegali, si punisce il vicino in nome di un ideale di libertà che nasconde le piccole ripicche di una vita. Lee e i suoi compagni di viaggio ritraggono questa America, riscoprono il cuore di tenebra di una nazione che lotta con sé stessa.

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Civil War non vuole essere un ritratto premonitore degli U.S.A. di domani, ma sembra porsi come un invito alla ragione, prima che questa sia sacrificata sull’altare di una retorica del potere ammantato di giustizia.

Le parole iniziali del presidente, volutamente senza nome, incarnano questa dialettica pomposa, aleggiano in tutto il film, trasformando la Land of Freedom nella summa degli incubi di guerra degli ultimi decenni, da massacri in strada a fosse comuni, portando il conflitto in una terra che non ha visto battaglia dalla Guerra di Secessione. E non a caso, l’unico monumento che vediamo distrutto è Lincoln Memorial, come a ricordare che le divisioni non sono mai pienamente sanate.

Perché vedere Civil War

Civil War abbandona il tono da film per assurgere quasi a reportage di guerra, non solo per la ragionata presenza degli scatti delle due fotografe come strumento narrativo, ma per l’impostazione asciutta del racconto. L’occhio di Garland non fa scontri, inquadra cadaveri e pozze di sangue, segue dinamicamente i pochi ma concitati scontri, arrivando a un finale che corona un percorso emotivo dei protagonisti graffiante e cinico, accompagnato da una colonna sonora di brani simbolo della cultura musicale 

Delle proposte in sala di questo primo quarto del 2024, Civil War è la più attuale e necessaria, una fotografia di una società che fatica a sanare le proprie ferite e riconoscere le proprie criticità, ma che ha anche la fortuna di esser ritrattata da voci autoriali che non intendono lasciarsi soffocare dal silenzio della negazione.

Un messaggio forte, di rottura per una società che vive più di contrasti che di dialoghi. Una visione come quella di Garland non poteva che generare divisioni, aspre polemiche e accuse di faziosità. Il messaggio di Civil War è di tutt'altra natura, tocca l'individualità dei personaggi e la coralità di una nazione che appare più confusa e alla deriva che mai. 

E dopo questa visione, buon Election Day il prossimo novembre.

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