Pedro Almodóvar è in stato di grazia e Madres Paralelas ne è la conferma. Dolor y Gloria è stato un film straordinario, uno dei suoi capolavori, ma è un caso a parte: è il genere di film che un cineasta può fare una, massimo due volte nella vita, perché mette dentro le sue carni e i suoi segreti, senza filtri. Vedendo questo nuovo lungometraggio firmato dal cineasta spagnolo, appare evidente come sia finita una fase del suo cinema (almeno per il momento): quella concentrata sulla dimensione corporea e sul dolore fisico (e spirituale) che può fungere da agente per esplorarla a fondo.
Madres Paralelas sembra un tuffo nel passato, negli anni d'oro del cinema di Almodóvar, dove a regnare erano le sue donne volitive, in particolare le madri. Le mamme parallele del titolo sono due donne gravide che si ritrovano a dividere la stanza d'ospedale durante il travaglio: una vive l'arrivo del primo figlio come una tarda benedizione, l'altra è più che pentita delle azioni che la stanno per trasformare in una puerpera. Man mano che il caso - guidato con mano sapiente dal regista e sceneggiatore spagnolo - riavvicina dopo qualche tempo le due sconosciute, il film si avvicina a un più che prevedibile, drammatico colpo di scena.
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Il punto però non è il segreto che legherà ancora di più le due donne tra di loro e nemmeno il corollario di figure femminili graffianti di cui Pedro Almodóvar le circonda (tra cui un'irresistibile madre con pochissimo istinto materno), anche se indubbiamente queste atmosfere e questi personaggi femminili daranno un brivido di piacere a chi segue ormai da decenni il cinema del regista. La parte più sorprendente (e memorabile) della pellicola ha un fortissimo risvolto politico e fa i conti con il recente ma spesso taciuto passato dittatoriale della patria di Pedro Almodóvar, la Spagna che fu di Franco.
Scheletri di una guerra mai finita
Il film si ritrova a far convivere gli stretti discendenti di due realtà politiche opposte: da un lato coloro che hanno un desaparecido in famiglia (uno dei 100mila oppositori scomparsi durante il regime e il cui corpo non è mai stato ritrovato), dall'altro le famiglie in cui non si parla di questi argomenti. Attraverso le parole di Penelope Cruz Almodóvar invita questi spagnoli (giovani e non) a chiedersi da che parte potessero stare le loro famiglie, a partire dal loro silenzio e dalla loro condizione spesso abbiente odierna.
Un Almodóvar più pasionario del solito ci tiene a trasformare quegli scheletri dimenticati in una fossa in corpi vivi nella memoria, almeno nella sua pellicola. Per farlo vuole prima mostrare l'amalgama attuale di popolazione spagnola, persone (donne) dietro cui si nascondono le antiche fazioni. Lontano da Madrid però, nei piccoli paesini, praticamente dietro ogni porta c'è ancora qualcuno che aspetta, una storia senza un finale, i nipoti cresciuti con le storie di chi non è più tornato.
Per ricordare con forza ai suoi connazionali che "la guerra non è ancora finita" e non lo sarà, almeno per lui, almeno fino a quando le centinaia di migliaia di cadaveri sotterrati nelle fosse comuni non verranno ritrovati e riportati alla luce, sceglie un ambiente estremamente familiare allo spettatore, congeniale al suo stile. Alla sua Penelope Cruz (la vera regina dell'ultima Venezia) regala un ruolo da attrice e donna matura: quello di una giornalista e madre single con una spiccata attitudine ad essere matrona, matriarca di un gruppo femminile e familiare espanso. Un ruolo tradizionale per l'attrice, ma così ben orchestrato dal suo regista di riferimento da valerle la Coppa Volpi a Venezia e la possibilità di farsi rivedere Oltreoceano, magari conquistando una nomination agli Oscar.
Non schiavo ma coccolato dagli sponsor
Al suo fianco c'è una giovane madre smarrita e cresciuta in un ambiente borghese, che poco o nulla sa del mondo e della storia spagnola, interpretata dalla bellissima Milena Smit, che Pedro Almodovar non esita a ricoprire di griffe, anche quando dovrebbe essere una giovane scappata di casa e senza un soldo. Una novità del tardo Almodóvar è come la sua estetica graffiante e le sue palette cromatiche vividissime siano spesso al servizio di product placement tutt'altro che discreti, come avveniva già nel precedente The Human Voice.
L'aspetto interessante è come il regista non nasconda queste sponsorizzazioni, ma tenti spesso d'integrarle nella pellicola, o di renderle esteticamente caratterizzanti tanto quanto gli oggetti e i luoghi funzionali alla storia. Se ho bisogno di Prada e Chanel per pagarmi il mio nuovo film, sembra dire Almodóvar, non farò il timido a riguardo: avvolgerò le mie protagoniste come dee nei loro vestiti, renderò questa corvée una scintillante confezione dentro cui far brillare il mio messaggio. Se proprio una pubblicità indiretta è inevitabile per godersi un film, meglio che a dirigerla ci sia uno con il gusto e il senso estetico di Almodóvar.
Un regista capace di guardare indietro senza nostalgia nel rielaborare sé stesso, ritrovando i suoi vecchi temi e i propri interpreti feticcio (oltre alla Cruz anche Rossy de Palma) per ribadire con più forza il bisogno di fare i conti col passato recente del proprio paese, riesumando quando giace taciuto e nascosto, per poi guardare al futuro con la stessa forza e tenacia di questo 72enne inarrestabile.
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Voto di Cpop
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