La prima parte di questa seconda stagione si chiude con un colpo di scena e rimette in discussione le priorità dei protagonisti
Il momento è arrivato: come sapevamo fin dall’inizio, The Walking Dead ci saluta fino a febbraio, quando vedremo – sempre in contemporanea con gli Usa – gli episodi conclusivi di questo ciclo. E come commiato non c’è male: l’episodio di ieri sera ha toccato argomenti importanti e si è chiuso con un colpo di scena memorabile. Ricca di spunti interessanti (fin da quel cambio di prospettiva dopo che Shane ha spiato gli zombies nel fienile: per un attimo la regia ci mostra il loro punto di vista), la puntata di ieri ha messo in evidenza le prese di posizione, il carattere e soprattutto la moralità di tutti i personaggi.
Ho letto molti commenti in giro per la rete che lamentano una lentezza di questa seconda stagione, soprattutto dal momento dell’arrivo alla fattoria. Io però credo che bisognerebbe considerare bene le ragioni di questa scelta degli autori, a cominciare dalla verosimiglianza. Paradossalmente, una serie che racconta la sovversione dell’ordine naturale vita-morte punta tutto sulla verosimiglianza: chiunque, se fosse al posto dei personaggi, cercherebbe un rifugio sicuro, lontano dal centro dell’azione, in cui vivere il più sereno possibile. Un rifugio in cui i piccoli gesti di quotidianità (come Herschel che legge mentre fa colazione o Maggie che raccoglie le uova dal pollaio) acquistano un valore inestimabile e aiutano i protagonisti a mantenere il sangue freddo necessario a non uscire di testa (cosa facile, se ci si mette a pensare a cosa succede “là fuori”). Non solo: i gesti quotidiani e la parvenza di normalità sono fondamentali per avere “la coscienza a posto”, come confessa lo stesso Herschel.
In quest’ottica, cioè quella di esplorare la natura umana in una situazione estrema, si porta avanti la serie concentrandosi sulle verosimili dinamiche umane piuttosto che sugli zombies e si svolgono i numerosissimi confronti dell’episodio. Daryl e Shane, Herschel e Maggie, Dale e Andrea, Rick e Shane, Glenn e Maggie, Shane e Dale, Daryl e Carol, Shane e Carl… Gli scontri-confronti verbali (e anche fisici: da manuale la sequenza con Dale e Shane) sono stati il leitmotiv di una puntata che ruotava attorno ad un’unica questione: bisogna sopravvivere, certo. Ma come? Da egoisti, pensando al modo migliore per salvarsi la pelle, o cercando di creare una nuova comunità, condividendo con degli sconosciuti quanto si ha e provando a reimpostare un qualche genere di società quando la società come la conoscevamo non esiste più? La natura dell’uomo, animale sociale, emerge prepotentemente e altrettanto prepotentemente si scontra con l’istinto di sopravvivenza.
Ciascuno dei personaggi viene messo alla prova, in qualche modo provocato, per mostrarci qual è la sua posizione a riguardo. Ma poi la scelta di Rick di aiutare Herschel ad ingrossare le fila delle persone malate nel fienile cambia tutto. Se gli zombies si catturano e non si uccidono più, allora bisogna riscrivere le regole del gioco? Nossignore. Non secondo Shane e tutti gli altri che impugnano le armi con lui… Salvo rimanere impietriti quando dal fienile, per ultima, esce la piccola Sophia. Le domande (Herschel lo sapeva?) lasciano il posto allo stupore e alla tensione. La lotta per la leadership fra Rick e Shane, che non a caso mostrano due posizioni opposte, si chiude nel momento in cui Rick – mentre gli altri assistono attoniti all’avanzare della piccola zombie col sottofondo del pianto disperato di sua madre – è l’unico in grado di fare ciò che va fatto.
C’è un solo leader. Soprattutto, c’è una sola scelta: uccidere… Per sopravvivere.
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