È giusto dare visibilità a Wanna Marchi su Netflix?

Autore: Elisa Giudici ,

Era davvero il caso di dedicare a Wanna Marchi una docu-serie su Netflix? Se lo sono chiesti in tanti, prima e dopo aver visto la miniserie di taglio documentaristico che il gigante dello streaming ha dedicato alla regina delle televendite e alla sua storia, umana e giudiziaria. Con i suoi quattro episodi, Wanna introduce lo spettatore - sia chi quegli anni di televendite li ha vissuti telecomando alla mano, sia chi non ha mai visto Marchi in TV - dapprima nel contesto sociale e televisivo dell’Italia degli anni ‘80, focalizzandosi poi sugli inizi da imprenditrice e televenditrice di Wanna.

Se vuoi leggere un parere sulla docu-serie, dai un'occhiata alla recensione di Wanna

Come Wanna racconta Wanna Marchi

Dopo aver delineato i suoi rapporti burrascosi con il primo marito e il legame quasi simbiontico con la figlia Stefania, la docu-serie prosegue a narrare lo straordinario successo della prima fase della carriera da televenditrice di Wanna. Insieme all’inseparabile, allora giovanissima figlia, Wanna diventa la regina della vendita di cosmetici e prodotti dimagranti via televisione, diventando miliardaria grazie al successo del suo scioglipancia. Arriva però la prima caduta, i debiti, i guai con la giustizia. Wanna Marchi si rialza con la figlia. Un nuovo uomo, una nuova emittente su cui dare il via a una vendita ben più sinistra: quella della fortuna. Insieme al “maestro di vita” do Nascimento, Wanna e Stefania vendono prima di numeri fortunati per il lotto, poi talismani e amuleti, infine la fortuna stessa contro il malocchio o le maledizioni. La condotta della società gestita dal trio diventa oggetto prima di un’inchiesta scandalo di Striscia la Notizia, poi di un’indagine giudiziaria. Seguono l’arresto, un lungo processo giudiziario e mediatico seguitissimo dalle televisioni e dai giornali e infine la condanna.

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Oggi Wanna e Stefania sono due donne libere, che hanno pagato il loro conto con la giustizia per il reato di associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata. Meno chiaro quanto abbiano pagato dei risarcimenti stabiliti dalla corte ai danni delle vittime dei loro raggiri (tante, ma di certo non tutte) e quanto del loro presunto tesoro - se esistente- sia nascosto da qualche parte.

Il processo è finito, la condanna scontata, l’epoca delle televendite e dei teleimbonitori definitivamente tramontata. Eppure in molti sono rimasti spiazzati e contrariati dalla sola possibilità che Wanna Marchi e Stefania Nobile fossero protagoniste di un prodotto su Netflix, incentrato sulla loro storia. Perché?

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Wanna: le ragioni di quanti sono contro la docu-serie

Fermandosi a pensare agli ultimi avvenimenti storici e vicende giudiziarie rilevanti degli ultimi vent’anni è evidente che il tempo di decantazione di una vicenda prima che questa venga attenzionata da un’emittente televisiva, uno studio di produzione, un servizio streaming o un creatore si va sempre più assottigliando. Il tempo per metabolizzare un avvenimento e trasformarlo in un contenuto di fiction o documentaristico che lo racconti si è tanto assottigliato da azzerarsi. Viviamo in un’epoca in cui gli insta-book e insta-movie (libri e film “istantanei”, che cavalcano l’avvenimento appena concluso o mentre sta ancora avvenendo) sono una realtà consolidata.

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Questo però non avviene senza attriti ed è particolarmente evidente nel genere true crime, ovvero quello che analizza fatti criminali realmente avvenuti, ricostruendoli in chiave documentaristica o fittizia, ma con grande aderenza allo svolgimento dei fatti. Wanna in questo senso lambisce il genere, perché se è vero che il crime di true crime ha quasi sempre a che fare con omicidi o aggressioni violente, il versante criminale e giudiziario di questa vicenda è innegabilmente centrale. Nel territorio del true crime a suscitare maggiore preoccupazione e contrarietà la possibilità di parlare di “casi freschi”, quelli in cui i parenti delle vittime e coloro che convivono con le ripercussioni del crimine sono ancora vivi. È giusto esporli di nuovo all’attenzione mediatica, fargli rivivere quanto subito e per giunta per il profitto economico di chi realizza questi prodotti? Non è una domanda scontata: le vittime di Wanna e i loro parenti sono in buona parte vive e probabilmente fanno i conti ancora con le ripercussioni economiche e psicologiche di quanto ancora successo.

Un altro punto spinoso dell’adattamento di Wanna è che, come ogni prodotto di Netflix e di qualsiasi altra emittente, è accuratamente creato, selezionato e proposto per avere successo e generare profitto. Non è un contenuto didattico né moralizzante: è una storia raccontata per catturare l’attenzione dello spettatore, forte di un personaggio noto e polarizzante, pubblicizzata con l’utilizzo di un passaggio lapidario, in cui Wanna Marchi urla che i coglioni meritano di essere truffati. Data l’indubbia popolarità del genere true crime e la fascinazione che Wanna Marchi esercita sul pubblico, era prevedibile che Wanna avesse un certo successo. Netflix non è la prima d’altronde a pasteggiare sull’attenzione che riesce a calamitare: prima di lei ci sono passate Mediaset con l’inchiesta di Striscia la Notizia raccontata nella docu-serie, che proseguì per settimane e registrò ascolti stellari. Rai da parte sua dedicò ampio spazio alla vicenda processuale in alcune trasmissioni storiche, antesignane del moderno true crime: Enigma, Un giorno in pretura e ovviamente Storie Maledette, condotto da Franca Leosini. Questo esempio è particolarmente interessante, perché ha in comune con Wanna di Netflix un elemento: la decisione di dare parola direttamente a Wanna Marchi stessa.

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Tra quanti sono rimasti contrariati dalla serie infatti una certa parte rileva come Wanna si potesse fare senza interpellare le dirette interessante: nella docu-serie invece, oltre a investigatori, giornalisti, ex televenditori e vittime, ricoprono un ruolo centrale Wanna Marchi e Stefania Nobile, che raccontano e commentano la propria storia dialogando con i realizzatori che mai sentiamo, ma di cui ogni tanto intuiamo l’azione. Si poteva raccontare la storia di Wanna Marchi senza darle di nuovo un palco da cui professare la propria innocenza o perpetuare la propria versione dei fatti? Una domanda non da poco. Non bisogna dimenticare però che Netflix non è la prima a fornire quest’opportunità alle Marchi (e presumibilmente a pagarle per il disturbo). Non è l’unico esempio, ma è il più rilevante: nel 2018 la giornalista Leosini dedica una puntata a Wanna Marchi nel suo popolare programma Storie Maledette, che va in onda in seconda serata su Rai3. Il format del programma prevede da sempre che Leosini intervisti il condannato di un caso di una certa rilevanza mediatica direttamente in carcere, ricostruendo insieme a lui o a lei la sua vicenda umana e giudiziaria. Un format rodato, che nei suoi episodi più riusciti fa emergere una verità umana e giudiziaria distorta o nascosta dal clamore mediatico.

Non è il caso di questa intervista a Marchi, in cui la carismatica e pungente Leosini fatica a contenere Marchi e a fermarla dal manipolare il suo stesso format e programma. D’altronde Wanna racconta propria della straordinaria capacità di una donna che attraverso il suo fare dispotico e antipatico, sa ammaliare e soggiogare il pubblico oltre il piccolo schermo.

Wanna dunque dà di nuovo un microfono e un minutaggio televisivo a Wanna e a sua figlia Stefania. Lo fa tentando di raccontarne la storia da vari punti di vista, umano e giudiziario, accusando e difendendo. Il rischio, secondo quanti condannano questo prodotto, è quello di permettere a questo personaggio controverso di ammaliare e tirare acqua al suo mulino ancora una volta, senza prendere una posizione netta, lasciando che lo spettatore ne rimanga stregato e truffato, magari scagliandosi a sua volta contro le vittime, i “coglioni che meritano di essere truffati”. Tra le critiche mosse a Wanna c’è per esempio quella di non dare sufficiente spazio alla vicenda tragica di persone accuratamente scelte per sfruttarne le loro debolezze, minacciate proprio tirando in causa gli affetti familiari e le tribulazioni quotidiane: salute, malattia, droga, eventi traumatici improvvisi. A ben vedere Wanna è anche una delle prime storie italiane in cui c’è di mezzo la tecnologia, con lo sfruttamento di un database clienti per fare una sistematica profilazione e poi colpire dove più è efficace. Per le testimonianze delle vittime e un chiaro quadro delle conseguenze tragiche di quanto compiuto dalle Marchi si trova spazio solo nella seconda parte dell’ultima puntata. Un po’ poco, un po’ troppo tardi.

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Un’altra parte poco indagata dalla docu-serie è la fitta rete di relazioni commerciali e umane che univa grandi e piccole emittenti private lombarde. Il vago accenno a dell’Utri e a Publitalia non restituisce certo un quadro dove l’emittente che ospita il programma che attacca le Marchi è un prodotto dello stesso mondo da cui la televenditrice è sorta.

Insomma, oltre alla posizione più negazionista - quella del no a qualsiasi contenuto relativo a Wanna Marchi, perché è troppo presto e non merita alcuna ulteriore esposizione mediatica - c’è una posizione che dal se si sposta al come: Wanna poteva essere fatto in modo diverso, dando meno possibilità di Wanna di raccontare la sua storia come le fa più comodo, fagocitando il tempo e le ragioni di quanti ha truffato?

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Wanna: le ragioni di quanti sono d’accordo con la docu-serie

Molti spettatori inizialmente scettici ci sono ricreduti vedendo la docu-serie Netflix. A Wanna infatti va riconosciuto quantomeno di controbilanciare la presenza delle Marchi con tutta una batteria di figure scettiche quando non apertamente accusatorie, che smontano (o almeno tentano di farlo) il castello innocentista che la donna si costruisce.

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Tre giornalisti investigativi, una telefonista “pentita”, un membro della Guardia di Finanza che diede il via alle indagini, l’avvocato dei truffati al processo, la voce di alcune vittime che testimoniarono: la versione di Wanna viene controbilanciata dalla verità processuale e da quella personale di questi testimoni. Il montaggio del documentario diventa via via più calibrato per far seguire a un’affermazione innocentista di Marchi e Nobile una contro-lettura di quanti il processo e le indagini le conoscono molto bene, o che peggio, quella truffa l’hanno subita sulla pelle. Si può poi argomentare quanto bene e approfonditamente il documentario affronti nella parte finale una serie di questioni che rimangono opache (il coinvolgimento non proprio disinteressato di Striscia la Notizia, ad esempio) o se queste voci - lontane dall’essere popolari e carismatiche come quella delle due protagoniste - possano davvero controbilanciare la sua presenza.

La docu-serie Wanna non fornisce in maniera esplicita una chiave di lettura, né tantomeno una lezione o un monito moralista. Presenta la sua vicenda al meglio delle proprie capacità, suggerendo indirettamente una chiave di lettura di certo non innocentista, ma dando al pubblico molto materiale su cui riflettere. Wanna Marchi infatti viene ritratta come una truffatrice, certo, ma anche come una donna vittima di un uomo violento e che desidera più di tutto provvedere ai figli da sé, avendo scarso aiuto dal coniuge. Ci sono molti uomini bella vita di Wanna, quasi tutti traditori, molti pericolosi ma in modi differenti. Quella di Wanna è anche la storia di un sodalizio femminile capace di sopravvivere a tutto: ai soldi, alla galera, alle botte. Quello, così profondo da apparire spesso distorto, tra una madre e una figlia. La docu-serie regala anche una collezione di affermazioni tranchant delle due protagoniste, ma a tempo debito finisce per contestualizzarle, a tratti riuscendo a vedere dietro gli occhialoni da sole e alla sicurezza ostentata delle due.

Può bastare? Non bisognerebbe dare una lettura più chiara dei due personaggi, accompagnarli a una condanna netta, un monito, un quadro morale netto? Wanna, a torto o a ragione, lascia che sia il pubblico a trarre la sua verità da questa storia, correndo il rischio che venga travisata e interpretata in modi inaspettati, erronei, malevoli. D’altronde il compito di questo documentario è d’informare e ricostruire, non insegnare. È un rischio che la nona arte corre spesso, nel campo fittizio e in quello documentaristico: quello di non rendere palese il proprio messaggio, o proprio non fornire uno. Non è il compito del cinema e della serialità insegnare, se non in contesti ben specifici. Anzi, l’intento più o meno esplicito di molti prodotti d’intrattenimento di insegnare o moralizzare è spesso pedante, talvolta odioso.

I fautori di Wanna plaudono alla maturità di un prodotto che si fida del suo pubblico, ponendosi l’obiettivo di fornirgli le informazioni necessarie per trarre le proprie conclusioni sulla regina della televendite, sulla sua ascesa e caduta. Dentro Wanna infatti non c’è solo un giudizio sospeso su una donna, ma anche sulla società che ne ha originato il successo e sul mezzo (la televisione) che ha reso possibile la storia, dall’ascesa alla caduta.

Diverso il discorso che riguarda la componente d’intrattenimento. Wanna non deve insegnare alcunché, alcuni dicono, perché storie come questa hanno lo scopo d’intrattenere il pubblico che prova curiosità verso vicende che sono comunque di dominio pubblico. Il rischio nel mettere paletti tra cosa si può raccontare e cosa no è ovviamente quello di aprire le porte alla censura in qualche forma. Quando ci sono di mezzo vicende umane e processuali è davvero possibile agire sulla base di così poche regole? Per contro, pare molto più regolata una narrazione fittizia coperta da copyright che la possibilità di parlare della storia vera, umana e giudiziaria, di una persona. Anche su questo Wanna decide, per maturità o forse per comodità, di lasciar giudicare lo spettatore.

Wanna è disponibile su Netflix con tutti i suoi episodi. Per le altre uscite potete consultare il nostro calendario delle novità Netflix.

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