Oscar 2017, il commento e il bilancio dell'edizione numero 89

Autore: Elisa Giudici ,

Erano le cinque di mattina passate (ora italiana) e l'89esima edizione degli Academy Awards si chiudeva come da pronostico, con tutti i premi di peso finiti esattamente nelle mani di chi ci si aspettava alla vigilia. A quell'ora il sonno e la nottata trascorsa a lavorare sull'elenco dei vincitori possono davvero giocare brutti scherzi. Per cui sì, posso testimoniarvi che il momento in cui il cast di Moonlight è stato chiamato sul palco a ritirare l'Oscar come miglior film dopo che i rivali di La La Land lo avevano erroneamente ricevuto e accettato con i discorsi di rito è stato parecchio surreale. Sembrava quasi un sogno, uno di quelli vagamente allucinati in cui persino la logica della mente addormentata ti dice che c'è qualcosa che non va. 

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Il grave errore che ha originato questo finale davvero amaro e imbarazzante ha però numerose vittime. Quando Warren Beatty ha letto qualcosa che non gli tornava nella busta (dato che era per errore accluso il foglio che riportava la vittoria di Emma Stone come attrice protagonista), ha ceduto l'onere a Faye Dunaway di annunciare il vincitore sbagliato, mentre avrebbe dovuto avere il coraggio e la cavalleria di fermare tutto e chiedere perché nella busta con il vincitore del miglior film c'era il nome di un'attrice. Certo, ha guardato in direzione del produttore dietro le quinte, ma questo prova solo che aveva compreso l'errore. Anche l'attrice ha peccato di fretta, specie data la delicatezza del momento. 

Ovviamente è stato quasi un incubo per i produttori di La La Land, a cui va il grande merito di aver saputo dimostrare enorme sportività e solidarietà, chiamando sul palco il vincitore senza i patemi, le prevaricazioni o la rabbia che avrebbero potuto esternare dopo aver stretto in pugno un Oscar che credevano loro e invece hanno dovuto passare ad altri. 
La vera vittima di quanto successo è la squadra di Moonlight al gran completo, dapprima defraudata della gioia della vittoria e poi della calma con cui affrontare un discorso preparato da tempo e che ovviamente è cambiato in corso d'opera. Vale la pena di sottolineare che l'Academy non ha fornito alcun tipo di spiegazione e men che meno di scusa a Barry Jenkins e soci per quanto accaduto. 

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Variety l'ha definita una vittoria dell'empatia sull'escapismo, confermando un nuovo trend: Spotlight e Moonlight sono film meno rassicuranti e glamour rispetto ai loro rivali dell'annata, ma capaci di ritrarre con lucidità incredibile non solo una storia cinematografica, ma anche un risvolto umano in cui tutti possiamo (e dobbiamo) immedesimarci. Spotlight però ha avuto il suo momenti di gloria, un faro puntato sulla storia che raccontava e sull'incredibile lavoro del suo cast. Moonlight, una microproduzione dal budget di 1,5 milioni di dollari che ha lottato per mesi contro i grandi studios e contro chi la bollava come una nomination politically correct (mentre in realtà è un grande film tanto quanto La La Land, solo declinato in un genere molto differente) ha invece ottenuto solo attenzioni per una gaffe di cui è stata vittima. Come se non bastasse, questa meritatissima vittoria verrà per sempre associata alle recriminazioni di chi nel tifo da stadio per la concorrenza tra molti ottimi film in gara ha dimenticato che quando a contrapporsi sono modi differenti di fare grande cinema, vincitore e sconfitto sono anche una questione di gusto e di momento storico. Il problema è che letteralmente nessuno sta parlando di un film elegante e coraggioso che racconta il difficile coming of age di un giovane ragazzo afroamericano e gay nella Miami di oggi. Insomma, nell'edizione numero 89 non ha vinto davvero nessuno, perché ne sono usciti tutti sconfitti, soprattutto il giusto vincitore. 

Di fronte a quanto successo una lunghissima e talvolta brillante serata di premi e lacrime sembra passare in secondo piano. E dire che Jimmy Kimmel aveva messo in piedi un'ottima conduzione, brillante e piena di sorprese, anche se non tutte riuscite. Dopo aver fatto entrare gli spettatori nel Kodak Theatre con l'esibizione di Justin Timberlake ancor prima del suo monologo (facendo ballare tutte le stelle e sciogliere la tensione della serata), ci ha infatti ricordato come dovrebbe essere lo spezzone comico di apertura di ogni grande annata degli Oscar: ironico, irriverente, impegnato ma mai offensivo. Certo Jimmy non le ha mandate a dire a Donald Trump, bersaglio di una serie infinita di frecciate, ma bisogna riconoscergli di non essersi davvero risparmiato, prendendo di mira tutti i presenti. Dalla algida Isabelle Huppert al suo nemico amico di sempre Matt Damon (che lo ha prevedibilmente assistito in parecchi passaggi all'insegna della loro fantomatica antipatia reciproca), Jimmy Kimmel ha saputo dimostrare di essere un ottimo presentatore, addossandosi in chiusura la colpa e la responsabilità di quanto successo. Un vero signore, a cui si può perdonare anche il momento un po' gratuito e gretto dell'ingresso di un gruppo di turisti ignari nel teatro, quasi a sottolineare la differenza tra il popolino turistico e il popolo di semidei hollywoodiani. 

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Per quanto riguarda gli acceptance speech, è stata decisamente un'edizione sottotono. Difficile che da qui a dieci anni uno dei discorsi di ringraziamento sentiti ieri sera venga ricordato, ad eccezione di quello per interposta persona di Asghar Farhadi, il regista iraniano di Il Cliente che ha vinto per la seconda volta la statuetta come miglior film in lingua straniera. Il regista aveva già annunciato che non sarebbe stato presente in aperta protesta contro il bando che vieta l'ingresso negli Stati Uniti a tutti gli iraniani, anche a quelli che hanno la documentazione in regola. Il suo accorato discorso esorta a non incrementare la paura dividendo il mondo in noi e loro, esortando i registi a utilizzare la cinepresa per catturare ciò che ci unisce: la nostra umanità

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Se è stata un'edizione più politicamente impegnata del solito lo si deve soprattutto ai cosiddetti vincitori minori, che più delle star hanno avuto il coraggio di ricordare le grandi tragedie che si consumavano mentre le stelle celebravano sé stesse al Kodak Theatre. I realizzatori di The White Helmets hanno ricordato l'odissea senza fine del popolo siriano e anche il nostro truccatore da Oscar Alessandro Bertolazzi (che ha vinto tra molte polemiche per il make up di Suicide Squad insieme a Giorgio Gregorini) ha dedicato il suo premio ai migranti. Un italiano ha comunque portato sul palco le parole che forse avrebbe pronunciato Rosi, che non ha portato a casa la statuetta per miglior documentario. Il vincitore di quella categoria, Ezra Edelman, ha dedicato il suo Oscar a un altro scottante problema della società statunitense, ovvero le vittime della violenza e della brutalità della polizia, della giustizia criminale o razzista. 

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Tra i discorsi delle stelle del cinema - oltre ai soliti ringraziamenti a mamme, papà, compagni e colleghi perdenti nominati nella medesima categoria - vale la pena di citare i due momenti forse emotivamente più forti della serata insieme al drammatico In Memoriam, l'omaggio agli scomparsi dell'ultima annata quest'anno ancora più lungo e doloroso del consueto. Il primo coincide con le prime lacrime a sgorgare copiose sul palco, quelle di Viola Davis, vittoriosa come da pronostico per il suo ruolo in Fences - Barriere. 

Cosa dire poi di Casey Affleck, che esce vincitore dal testa a testa con Denzel Washington per la statuetta di miglior attore protagonista? È il momento della rivalsa per un giovane attore che, lo si capisce sin dalla sua salita sul palco, non deve aver poi dovuto cercare molto lontano per interpretare un uomo distrutto dal senso di fallimento, dall'infinito e impietoso paragone con il fratello di successo (nella finzione dello splendido Manchester By The Sea, nella vita con la scomoda presenza del ben più noto Ben Affleck). Raramente si era percepito tanto dolore e tanta tristezza nel momento di maggiore felicità per la carriera di un attore.

Vedendo le lacrime di gioia ma anche di rabbia di Casey riflesse nei lucciconi dell'emozionatissimo fratellone Ben e dell'amico di sempre Matt Damon, anche da casa è stato molto difficile non emozionarsi troppo. L'unico non partecipe di questo momento di piangerone generale è stato proprio Denzel Washington, citato da Affleck jr come ispirazione per la sua intera carriera, che dimostra che c'è ancora qualcuno che non sa proprio digerire le sconfitte in pubblico. 

Abc
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C'è ancora qualche star a Hollywood che non sa nascondere il suo disappunto nel momento della sconfitta.

Passando dal serio al faceto, da qualche anno a questa parte la storia si fa anche in formato gif. Quale sarà l'immagine animata che passerà dagli Oscar al commento di tutti i giorni delle nostre vite sui social? L'anno scorso anche in questa categoria aveva vinto Meryl Streep con il suo tifo da stadio, insieme al sorrisone di Leonardo Di Caprio con il suo prima Oscar tra le mani. 

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Quest'anno sarà una battaglia tra il modo quantomeno inconsueto di Nicole Kidman di battere le mani...

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... e la turista che, attonita, dice a Ryan Gosling che è bellissimo. 

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