Con la vittoria di Guillermo del Toro si è conclusa la 74esima edizione della Mostra d'arte cinematografica di Venezia. Rispetto agli anni passati la qualità media dei 21 film in concorso si è rivelata piuttosto costante, mancando forse di grandi guizzi memorabili, ma evitando anche di cadere nell'abisso con gli "scult" che spesso fanno la storia - in negativo - dell'annata veneziana. Mentre al Lido smontano gli allestimenti e i premiati tornano a casa con i loro Leoni, è giunto il tempo dei bilanci anche qui su NoSpoiler.

Cosa vedere e cosa evitare tra i film del concorso, in arrivo nelle prossime settimane (talvolta nei prossimi mesi) nelle sale italine? Dando per scontato che un Leone d'Oro tanto commerciale e tanto atteso farà il pienone di pubblico e sarà un must see per ogni cinefilo (ve ne ho già parlato nella recensione dedicata), ecco i miei consigli di visione: a seguire trovate i 5 film da non perdere assolutamente e le 5 pellicole da evitare all'arrivo nelle sale.
Venezia 74: i 5 titoli top
Tre manifesti a Ebbing, Missouri
Del Toro può esultare per la sua vittoria, ma il vincitore morale dell'edizione è senza ombra di dubbio Martin McDonagh, autore di quello che è stato di gran lunga il miglior titolo visto in competizione. Anzi, Tre manifesti a Ebbing, Missouri sarà indubbiamente uno dei titoli da ricordare del 2017 perché in quest'annata davvero in pochi si sono avvicinati alla perfezione stilistica e formale di questo gioiello.
In Italia lo vedremo a gennaio 2018 e ne torneremo a parlare, anche perché l'acclamazione critica ricevuta lo mette in un'ottima posizione di partenza per gli Oscar. Il suo unico limite è forse quello di rendere difficile dire quale sia il suo aspetto migliore: la sceneggiatura andrebbe studiata nelle scuole di cinema, il cast è fenomenale nel suo complesso, mentre la protagonista Frances McDormand è assolutamente eccezionale. In una parole: imperdibile.
La Villa
Il consenso della critica sul nuovo film di Robert Guédiguian è stato tutt’altro che unanime, ma è stato forse il film che ricordo con più affetto dell’intera edizione, quello che mi ha scaldato il cuore. La pellicola è stata attaccata soprattutto per come affronta un grande problema del nostro tempo ed è stata tacciata di facile buonismo. Tuttavia la supposta sviolinata comincia a 15 minuti dalla conclusione, quindi non solo costituisce uno spoiler bello e buono, ma difficilmente può affossare da sola l’intero film che la precede.

La Villa è una pellicola intima come i rapporti che si scongelano tra le due generazioni che formano la famiglia protagonista. A riunirle è la malattia dell’anziano padre e la necessità per i figli di decidere il da farsi. Il teatro di tutto è la grande villa che l’uomo ha costruito in una meravigliosa cittadina di mare ormai dimenticata, dove gli anziani vivono di ricordi e i giovani di un tempo - i tre figli protagonisti del film - si riscoprono a loro volta preda della malinconia, dei ricordi, delle prime avvisaglie della vecchiaia. La Villa è uno splendido film francese che riscalda i legami allentati di una famiglia. Tutt’altro che buonista o borghese, forse ha urtato molti per la tenerezza con cui avvicina i suoi protagonisti, per la bontà che sanno dimostrare e per quanto sia innamorato dell’amore, nella più classica tradizione francese. Scuola cinematografica che continua a non sbagliare un colpo: a mio parere, un piccolo gioiello sin troppo trascurato.
The Insult
La vera sorpresa di Venezia è stata la grande quantità di film - in concorso e nelle sezioni laterali - di genere crime. Il giallo, il noir e i legal sono solitamente molto amati dal pubblico ma faticano a trovare spazio nei festival, a causa della loro supposta scarsa autorialità. In questo senso la pellicola più sorprendente e forse migliore di Venezia 74 è stata il film di Ziad Doueiri. The Insult ha incassato il plauso della critica e la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile; quella dell’interprete del collerico profugo palestinese Kamel El Basha.
Il film sembra un miscuglio delle pellicole quotidiane e moralmente ambigue del regista iraniano premio Oscar Asghar Farhadi (Il Cliente) e l’estetica televisiva tipica delle produzioni commerciali arabe. Un miscuglio che spiazza, sorprende e poi conquista per un legal che si svolge per gran parte in un’aula di tribunale. Un uomo libanese del partito conservatore denuncia un ingegnere palestinese perché a suo dire sarebbe stato da lui insultato. Il trascurabile diverbio fa riemergere le tensioni tra libanesi, rifugiati palestinesi mal tollerati dalla popolazione e antiche accuse di collaborazionismo con Israele durante le guerre sanguinose nel cuore di Gerusalemme. Non mancano i colpi di scena, i primi piani intensi e la svolta buonista sul finale, ma The Insult ha il grande pregio di essere accattivante e di parlare dell’infinita diaspora palestinese sotto un punto di vista nuovo, meno politically correct del previsto.
Jusqu'à la garde
Il regista francese Xavier Legrand si è preso i fischi della Sala Grande quando ha vinto a sorpresa il Leone d’Argento per la miglior regia, invece a mio parere è stata la decisione più brillante e coraggiosa dei giurati capitanati da Annette Bening.
Jusqu'à la garde forse non ha la miglior regia dell’intero concorso, ma mostra un girato solidissimo e intenso come pochi, che se la gioca con i grandi rivali come Paul Schrader e Abdellatif Kechiche. In questo caso però stiamo parlando di un assoluto esordiente che scrive e dirige con mezzi contenuti una storia che fa della sua ambiguità la sua forza, chiudendosi con in un crescendo di tensione incredibile e davvero memorabile. Venezia deve procedere in questa direzione: più esordienti da far scoprire e meno grandi autori che vivono delle loro glorie passate.
Lean on Pete
Il regista britannico rivelazione degli scorsi anni torna a far parlare di sé con un film tanto semplice quanto sentito ed efficace. Dopo aver esplorato un amore fugace in Weekend e i segreti di una relazione consolidata in 45 anni, Andrew Haigh ritrae i moti di un’adolescenza messa in difficoltà dalla precarietà economica e della mancanza di affetti.
Lean on Pete è un film terso come gli occhi del giovane protagonista Christopher Plummer, attore rivelazione dell’edizione (che ha lasciato la Laguna con il Premio Mastroianni, lo stesso che lanciò Jennifer Lawrence). Raccolto e ottimamente eseguito, rischia un po’ di perdersi rispetto alle grandi produzioni che vedremo nei prossimi mesi. Eppure ha il raro pregio di affrontare tematiche drammatiche senza risultare pesante o depressivo.
Venezia 74: i 5 film flop
The Human Flow
Nella serata dei Leoni è stato chiesto alla giura perché il documentario del dissidente cinese dedicato all’immigrazione fosse rimasto fuori dal palmares. La domanda dà una cifra di quanto questo titolo venga trattato come un film a parte, valutato per presunti meriti politici e artisti.
La giuria invece ha preso la giusta decisione: la Mostra analizza l’arte cinematografica e di cinema nelle tre ore di The Human Flow se ne vede davvero pochissimo. Tra ossessive riprese con i droni e fastidiose intromissioni personalistiche di Weiwei stesso, ci si chiede che senso abbia parlare del problema dei migranti in questa dimensione così povera a livello cinematografico, quando altri film in concorso lo hanno saputo affrontare in maniera più incisiva e meno banale. Senza dimenticare che il documentarista italiano Gianfranco Rosi ci è arrivato prima (e meglio) con Fuocoammare.
Downsizing
L’apertura di Venezia è una cosa seria. In anni recenti per molti film, da Birdman a Gravity, ha significato una partenza di lusso per una vittoriosa corsa all’Oscar. Il nuovo film di Alexander Payne invece ha ambizioni ben più contenute: l’allegra commedia apocalittica e ambientalista con protagonista Matt Damon avrebbe in potenza tanto da dire, ma si accontenta di accennare appena qualche domanda, evitando chiaramente ogni tipo di risposta incisiva sull'argomento.
Ve ne ho già parlato nella recensione dedicata.
Una Famiglia
È stato il film più odiato dalla critica in Laguna, con tanto di fischi e pernacchie al termine della proiezione. Il dramma di Sebastiano Riso che racconta la vita di una coppia che vende sul mercato clandestino i propri figli a chi non può averne è il grande sconfitto della rassegna veneziana.
Non è però un bruttissimo film, a differenza delle tante pellicole che hanno segnato i bassi - profondi, abissali - delle scorse edizioni. La colpa più grande del lungometraggio con protagonisti Micaela Ramazzotti e Patrick Bruel è quella di ricadere in tanti difettucci del cinema italiano più melodrammatico e casereccio, proprio nell’anno in cui gli altri concorrenti della Penisola hanno svecchiato la proposta cinematografica nostrana.
Sweet Country
Il western australiano diretto da Warwick Thornton è tutt’altro che un brutto film. Anzi, tecnicamente è ineccepibile o quasi, aiutato dai soliti, spettacolari paesaggi australiani, da una fotografia e da una regia di grande professionalità.
Se ci fosse un premio alla pesantezza cinematografica però lo vincerebbe di certo: duro, durissimo, senza una via d’uscita o una redenzione, quasi per il puro gusto di essere disperante. Un western che picchia duro insomma, come tanti che l’hanno preceduto, senza davvero nulla di nuovo da dire, nascondendosi nella sua stessa violenza estrema.
First Reformed
Lo sceneggiatore di Taxi Driver ha ritrovato la forma a Venezia 74. Tanti dei fischiatori al Leone di Legrand avrebbero voluto il grande autore americano andare a casa con il premio alla regia. Ritrovare la forma (magari aiutati dalle ossessioni di sempre, come quella contro il sistema corruttivo e alienante della nostra società) non significa però brillare.

First Reformed è un bel film, radicale e rigorosissimo come il carattere del suo creatore. Gli interpreti però non sono così incisivi e quando il film si fa allegorico e visionario, perde il contatto con il pubblico e spezza la magia. Sono contenta di rivedere Schrader in forma, ma ci vuole qualcosa in più per gridare al capolavoro: ecco la recensione del film.
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