Tutti i soldi del mondo: la recensione del film di Ridley Scott sul rapimento Getty

Autore: Emanuele Zambon ,

Dobbiamo delle scuse (tardive) al cinema di genere nostrano anni '70, a quel suo sguardo truce e iperrealistico sul passato - il riferimento è all'epopea del West declinata nello spaghetti western - e sul presente di allora, immortalato negli innumerevoli polizieschi del decennio.

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Ridley Scott, confezionando un thriller sulla carta serrato come Tutti i soldi del mondo, ha peccato invece di superficialità, riproponendo un'idea del nostro Paese di quegli anni ben lungi non solo dall'essere fedele alla realtà, ma neppure lontanamente credibile.

Quello del regista di Blade Runner è un film completamente sbagliato, salvato parzialmente dall'88enne Christopher Plummer, reclutato in fretta e furia per sostituire Kevin Spacey, travolto dalle accuse di molestie sessuali a film oramai ultimato.

Se Ridley salta la lezione di Storia

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Tutti i soldi del mondo doveva raccontare il rapimento di John Paul Getty III, nipote del tycoon più ricco di sempre, forte di un patrimonio accumulato grazie a petrolio, tenute e manufatti, stimato in circa 2 miliardi di dollari (valutazione fatta all'epoca del decesso, avvenuto nel '76 e non durante il rapimento del rampollo di casa, come raccontato nel film di Scott).

Le basi per un thriller al cardiopalma, quindi, erano sufficienti: un caso di cronaca nera dal respiro internazionale che vedeva come terminali della vicenda la 'ndrangheta e un petroliere spietato, avido e calcolatore, per giunta straniero. Il tutto calato in un contesto dark come quello degli Anni di piombo, inaugurati dallo stragismo di stampo politico (l'attentato di Piazza Fontana a Milano e quello del procurato deragliamento di un treno nei pressi della stazione di Gioia Tauro), alimentati dalla contestazione studentesca e operaia e dalla collusione fra poteri forti e criminalità, funestati infine da morti eccellenti e segreti di Stato.

Lucky Red
Ridley Scott sul set del film

Materiale che scotta, spesso sfruttato alla perfezione sia da registi stranieri (Coppola con Il Padrino - Parte III, tanto per citarne uno) che da cineasti nostrani. Impossibile non pensare a Romanzo Criminale di Michele Placido. 

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Peccato, però, che Scott abbia saltato la lezione di storia contemporanea. E i risultati, nelle sessione d'esami (che poi coincide con l'uscita in sala del film), si vedono eccome: l'incipit di Tutti i soldi del mondo mostra una sorta di Via Veneto che sembra uscita fuori da una scena de La Dolce Vita di Fellini al posto della Roma della mala raccontata senza troppi fronzoli da un artigiano come Umberto Lenzi nei polizieschi con Maurizio Merli e Tomas Milian, quella in cui avvenne il sequestro Getty.

Quer pasticciaccio brutto di Piazza Farnese

Il regista di Alien, poi, ricostruisce gli accadimenti con la stessa efficacia con cui il gruppo di sventurati della Megaditta rigirava la scena della scalinata sorbita in anni e anni di proiezioni del capolavoro di Sergej M. Ėjzenštejn, La corazzata Potëmkin. Il posto nella culla di Fantozzi è occupato in Tutti i soldi del mondo da Mark Wahlberg, completamente fuori parte (un'ex CIA esperto di trattative col look e l'atteggiamento di un contabile).

Ma è tutto il film a risultare posticcio: una messinscena in precario equilibrio sul filo della fiction e della realtà (il sequestro avvenne a Piazza Farnese e non a Porta Maggiore); comprimari assolutamente non all'altezza (è impresentabile Nicolas Vaporidis come guappo calabrese mentre Marco Leonardi, l'unico a suo agio nel ruolo, è purtroppo sacrificato in fase di sceneggiatura); un caotico avvicendarsi di tempi e luoghi, da Londra a Roma - che non sembra neppure per un istante la capitale di 45 anni fa - dai flashback con tanto di voice over alla vicenda del sequestro.

Mark Wahlberg in una scena

Scott non recupera neppure, tra le seconde linee, i volti da strada come era riuscito invece in precedenza a Coppola (Citti, Infanti e Donatone nella saga de Il padrino), facendo sì che il film perda fin dalle prime battute credibilità. A peggiorare la situazione contribuiscono doppiaggi rivedibili (così come il sonoro in presa diretta), la sede delle Brigate Rosse che ha la stessa fisionomia di una sala d'aspetto di un'agenzia di assicurazioni, aguzzini e brigadieri che somigliano a hipster - eccezion fatta per il francese Romain Duris, che cerca in tutti i modi di passare per un criminale calabrese lavorando su smorfie e aspetto - e prostitute che tentano di evocare l'immaginario felliniano finendo invece per scomodare il De Sica trash dei cinepanettoni (sentire, per credere, la battuta sui maritozzi).

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È innegabile che Tutti i soldi del mondo sia una delle opere meno riuscite di Ridley Scott, che dal canto suo riesce a sprazzi a illuminare la scena. Lo dimostrano l'evocativa sequenza tra i Fori Imperiali innevati, il simbolico rallenty delle mille copie di un giornale svolazzanti, qualche scelta musicale azzeccata - la splendida Wild Horses dei Rolling Stones - e il geniale deception con cui filma il pagamento da parte di Jean Paul Getty di un'opera d'arte proveniente dal mercato nero.

Scrooge Plummer

Più che un film sul sequestro di Getty III, quella di Scott è una pellicola poco riuscita sull'avidità e il potere del denaro. Un biopic dai tempi dilatati in cui l'unica nota positiva sarebbe l'annuncio di una Plummer's Cut, una versione del film incentrata solo sulle scene in cui compare uno degli Scrooge cinematografici più riusciti di sempre. Vi è persino una scena in cui l'attore canadese stringe a sé la sua "Numero 1", a mo' di Paperon de' Paperoni.

Chi merita davvero l'Oscar, però, è l'addetto al montaggio del trailer: potrebbe davvero riuscire a vendere il petrolio agli arabi.

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