Il merito di Aaron Sorkin - e insieme il suo limite maggiore - è di essere estremamente consapevole delle sue grandi capacità e della sua notevole ambizione. Anche quando si arrabbia o minimizza, si capisce che è acutamente consapevole dei suoi limiti e difetti, anche quando finge di non riconoscerli come tali. Sorkin sa di aver scritto più di una pagina importante per l'identità del cinema statunitense nel ruolo di sceneggiatore di titoli come The Social Network, The West Wing e Codice d'onore. Il pubblico ha un'intesa familiarità con i suoi dialoghi ricchissimi e sferzanti, con i suoi professionisti nevrotici, con la straordinaria grana che i suoi personaggi assumono quando pronunciano le parole da lui scritte. È un traguardo che pochissimi sceneggiatori cinematografici possono rivendicare e praticamente nessuno può vantarsi di farlo in maniera così definita, assoluta come Aaron Sorkin. Se un regista non è abbastanza carismatico, la sua scrittura se lo mangia vivo: il risultato finale sarà destinato a diventare "qualcosa alla Sorkin".
Sorkin tutto questo lo sa: sa di essere un ottimo sceneggiatore e un ancor migliore manipolatore di emozioni del pubblico, che sa sorprendere o rassicurare a partire da precise aspettative su cosa scriverà. A un certo punto però ha deciso che essere uno degli sceneggiatori statunitensi viventi più noti, apprezzati e pagati di Hollywood non gli bastava più. Per chi scrive film infatti la gloria va sempre divisa con chi li realizza. Perché quindi non mettersi dietro la macchina da presa?
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Dopo l'esordio Molly's Game, Il processo ai Chicago 7 è il secondo film diretto di Sorkin, che dietro la cinepresa brucia le tappe alla stessa velocità con cui i suoi personaggi macinano battute. Non significa che sia necessariamente un grande regista, ma Sorkin sembra aver già imparato come mettere a frutto visivamente le qualità narrative della sua scrittura. Il legal drama in arrivo su Netflix il 16 ottobre 2020 ha infatti un passo registico notevole, un ritmo via via più incalzante, un dinamismo visivo che non si lascia intrappolare dalla staticità dell'aula di tribunale. Basta considerare come riesca, senza apparente sforzo, a orientare un pubblico dalla soglia d'attenzione sempre più bassa in un film che vede protagonisti otto imputati a processo, più uno stuolo di avvocati e personaggi corollario.
Uno scandaloso processo
Il processo ai Chicago 7 sintetizza sommariamente i 151 giorni che hanno costituito il primo grado di giudizio di uno dei più famosi e scandalosi processi penali statunitensi. Erano imputati otto attivisti politici (alcuni dei quali molto noti all'epoca) con l'accusa di cospirazione, all'indomani delle proteste violente occorse a Chicago durante la convention democratica del 1968. Nell'analizzare la genesi del processo, Sorkin non ha dubbi sull'interpretare i fatti. Sin da subito, ci presenta il processo giudiziario come un procedimento avviato per mera vendetta politica; contro i democratici, contro la gioventù hippie e pacifista, contro i delegittimatori dello sforzo bellico in Vietnam.
Provarlo però è tutt'altro che semplice, anche perché il gruppo in realtà è unito solo dal capo d'imputazione. Dentro ci sono attivisti politici del mondo culturale delle università, radicali e hippie, movimenti non violenti, semplici manifestanti e il capo delle Pantere Nere Bobby Seale. Mentre in aula si consuma la battaglia contro la repressione del dissenso e contro un giudice parziale, razzista e vendicativo, le frizioni tra i vari movimenti politici e culturali creano ulteriori occasioni di scontro verbale tra i protagonisti: una manna per Sorkin, che gestisce brillantemente l'intero cast. Il parterre è così ben selezionato, così blasonato che qua e là si ha l'impressione di vedere un film di Steven Spielberg, anche solo la presenza paterna e rassicurante di Mark Rylance.
A rubare la scena a tutti però sono i due leader forti e contrapposti del gruppo degli imputati: l'idealista e pragmatico Eddie Redmayne (il volto pulito e rassicurante della protesta pacifica Tom Hayden) e l'apparentemente cinico e calcolatore Sacha Baron Cohen. Sorkin gli costruisce addosso un personaggio davvero strepitoso, che conquista lo spettatore. Abbie Hoffmann è come un cipolla narrativa: strati su strati di complessità che scatenano reazioni sempre più forti man mano che si pelano via.
Da hippie strafatto al primo giorno in aula a cabarettista ironico, passando per cinico calcatore e vero idealista, Hoffmann è il contraltare perfetto per l'idealismo "pulito e ordinato" di Tom Hayden. Mentre il personaggio di Eddie Redmayne trova una sua complessità nei tanti grigi nascosti nella sua figura apparentemente senza macchia, Cohen tira fuori dal cappello un'interpretazione magnifica, che da sgangherata diventa istrionica, ammaliante e infine ispirante.
Passato e presente sovrapposti
La storia processuale sembra inoltre creata appositamente per mascherare i limiti della scrittura di Sorkin, spingendo al massimo su tematiche di caldissima attualità. Essendo ambientato nel 1968, il film giustifica a sé stesso e al pubblico con abilità la qualità totale assenza di personaggi femminili (a cui spesso tocca un ruolo meramente simbolico, vedi la ragazza con la bandiera). Le violenze pianificate e senza limiti della polizia, il clima di persecuzione che circonda Bobby Seale (Yahya Abdul-Mateen II) in quanto attivista afroamericano delle Pantere Nere; tutto fa sovrapporre il passato al presente, come se la ruota della Storia avesse compiuto un giro interno, tornano sui suoi passi.
C'è però una scena emblematica che ha Seale come protagonista che dimostra quanto Sorkin sia manipolatore e per giunta in malafede. Questo evento di inaudita violenza che violò tutti i suoi diritti come imputato è particolarmente famoso negli Stati Uniti, anzi: è il passaggio processuale cruciale, il dettaglio passato alla storia. Nella realtà storica dei fatti la scelta vergognosa del giudice non durò qualche minuto, come nel film, bensì per giorni. Eppure Sorkin non ne fa il cuore emotivo del film, anzi: se ne serve per mettere da parte la questione razzista, per spingere fuori dalla scena l'unico personaggio afroamericano, concentrandosi sulle reazioni del suoi bianchissimi compagni d'imputazione.
Sorkin insomma non manipola il cinema al fine di raccontare con maggior efficacia o realtà storica un evento, bensì interviene sulla Storia per rendere più efficace il suo cinema. Dal punto di vista formale il film è riuscito proprio per questo, ma dal punto di vista morale colpisce quanto lo sceneggiatore e regista manipoli la realtà di fronte al suo pubblico per tracciare un facilissimo parallelo tra Repubblicani senza scrupoli di allora e figure estremamente controverse di oggi.
Eppure il suo film, se ben analizzato, risulta superficiale nella sua partigianeria tanto quanto Da 5 Bloods di Spike Lee o One Night in Miami di Regina King. Due titoli "neri" che rivedremo di certo alla notte degli Oscar. Non è difficile prevedere che Aaron Sorkin sarà il loro avversario: d'altronde questo film è costruito esattamente a questo scopo, controverso il giusto per trovare "un palco e un pubblico", come dice il giovane procuratore interpretato da Joseph Gordon-Levitt.
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