Quando entri in sala a vedere un film su Judy Garland, ti aspetti una serie di momenti, canzoni e scene, tra cui l'immancabile presenza di Over the Rainbow e delle scarpette rosse del Mago di Oz, totem di una Hollywood scintillante e crudele che non c'è più. Il come e il perché questi ingredienti vengano mescolati dipende ovviamente da chi c'è dietro la macchina da presa e da chi produce. All'inizio di Judy appare il logo della BBC, che sia in campo televisivo sia in campo cinematografico è garanzia di un certo standard a livello qualitativo. La sorpresa - in negativo - è che Judy sprofonda ben sotto il livello che che il britannico cinema ci ha abituato ad aspettarci, pur portando con sé aspettative da Oscar del tutto lecite e credibili.
Renée Zellweger infatti è la favorita per la vittoria di miglior attrice agli imminenti Oscar 2020. Non è una vittoria blindata come quella del collega Joaquin Phoenix, ma il sentiero di mattoni gialli verso l'Oscar è stato rafforzato, vittoria dopo vittoria, per tutta la stagione dei premi. A partire dal Golden Globe, l'ex Bridget Jones si è dimostrata tutto il contrario del personaggio pasticcione che l'ha resa celebre: non ha sbagliato un abito, una dichiarazione, un'intervista.
Eppure sentendo il lunghissimo e straniante discorso di ringraziamento pronunciato mentre stringeva il globo d'oro tra le mani (discorso poi sbeffeggiato da Ricky Gervais) si aveva l'impressione di sentire parlare una vincitrice di 10 o 20 anni fa. Le sue vittorie della stagione sono incontestabili eppure non scaldano il cuore, non raccolgono applausi scroscianti e non inducono tifo da stadio o esultanza. L'impressione è che l'approccio di Renée Zellweger stessa sia tanto datato quanto quello del film che le ha tirato alla corsa. Judy funziona come una tagliola ormai arruggita: imprigiona il piede dell'Academy, ma lo fa con un clangore stridulo, che lascia qualche dubbio di fondo.
La sentiero verso gli Oscar
Vedendo Judy è difficile resistere alla quadratura del biopic di grande star tanto famosa quanto sfortunata. Un genere abusatissimo nella stagione dei premi, eppure ancora capace di tener testa alla sua nomea e portare attori e attrici alla vittoria. È l'ultimo baluardo della vecchia Hollywood di fine '900 a non cadere, un'eredità che si vorrebbe cancellare dell'era Weinstein ma che continua a perdurare. Nelle ultime pagine dell'albo d'oro dei biopic da Oscar troviamo Rami Malek che imita Freddie Mercury, Renée Zellweger con Judy Garland e Taron Egerton con Elton John. L'operazione dalle stalle alle stelle e ritorno funziona ogni volta. Rispetto agli anni '90 siamo ben più consapevoli di quanto sia mercenaria la scelta di una vita e di un copione da portare su grande schermo, quanto calcolato il coinvolgimento di un certo interprete per calarsi nel delicato processo di mimesi. Eppure tutta la consapevolezza non serve a nulla, almeno non durante il voto (segreto) della stagione dei premi.
Nell'ultimo ventennio il genere biopic si è dimostrato particolarmente prolifico, trasversale a ogni latitudine e livello di ambizione. Dall'autoriale al smaccatamente commerciale, è tra i preferiti dai produttori e dai realizzatori, di certo non disdegnato dal pubblico. Dopo l'alleggerimento di strutture e tempistiche operato nello scorso decennio (episodi di vita significativi e non vere e proprie biografie dalla nascita alla morte) è una delle scelte più facili da fare quando si esce dal territorio di sequel, prequel e remake. Una vita già nota di un VIP o un artista famoso è la cosa più simile a un supereroe familiare al pubblico da maneggiare per chi non ha comics a disposizione per il passaggio su grande schermo.
La storia di Judy Garland si presta benissimo a calvacare i trend degli ultimi anni. Da sempre l'Academy ha una predilezione per le vite di star sfortunate in amore, ma negli ultimi anni pubblico e votanti hanno dimostrato di apprezzare storie musicali dal lieve tocco queer. Judy Garland è la magnifica ossessione e la principessa triste di intere generazioni di appassionati di musical che descriverebbero il loro orientamento sessuale tra il queer e i Tony Awards. Il film, tratto da uno spettacolo teatrale, non si lascia sfuggire la possibilità di giocare questa carta: se non hai per le mani un'icona gay, gioca almeno quella del personaggio gay friendly.
Come Stanlio e Ollio (o forse no)
Date le premesse non mi aspettavo certo un biopic rivoluzionario o dirompente (ci aveva già pensato nel Pablo Larraín nel 2016 con l'incredibile doppietta Jackie e Neruda), ma confidavo in una produzione sopra la media come era stato il film dedicato a Stanlio e Ollio. Anch'esso produzione BBC, condivide con Judy un numero importante di elementi simili o identici: star in fase calante e in crisi finanziaria cercano scampo in una tournée inglese che da cariatidi di un tempo li trasforma in cigni pronti a cantare un'ultima volta, prima che la crudeltà della vita e la salute precaria se li porti via.
La sorpresa - negativa - è come il film di Rupert Goold sia un'opera ben più mediocre del film su Stanlio e Ollio a cui tanto somiglia. È come se il film inseguisse volutamente un certo grado di banalità e mediocrità perché è quanto ci si aspetta da quel tipo di pellicola che fa da Oscar bait, da esca per acchiappare un Oscar. Nulla vietava a Judy di mettere sotto i riflettori la performance sentita e mimetica di Renée Zellweger, costruendole un film intorno. Invece l'attrice statunitense spicca sì per rassomiglianza alla diva ormai consumata dall'età, dai farmaci e dai ricordi neri della sua gioventù, ma contrasta su uno sfondo incolore e volutamente annacquato.
È quasi offensivo come il film tiri il sasso ma nasconda la mano nel parlare ad esempio delle molestie subite dall'attrice da ragazzina, perpretrate dal grande capo degli studios L.B. Mayer. Nell'attuale epoca post #MeToo non serviva nemmeno particolare coraggio per constatare ciò che è emerso negli anni da lettere e da documenti. Invece il film un po' accenna, un po' sottintende, nascondendosi nelle allusioni e negando alla sua protagonista un momento in cui mostrare una parte del dolore che la assilla e la distrugge con la nuda forza dei fatti.
Tanto la toria di Stanlio e Ollio sapeva essere sincera fino a risultare brusca tanto qui ogni lacrimevole rivelazione appare mediata e insopportabilmente ingentilita. Quella interpretata da Renée Zellweger è una donna gravemente dipendente dai farmaci e dall'alcool, assillata da fobie e priva della forza di lottare, ma non di quella d'illudersi. Il film però non ha il coraggio di guardarla davvero in faccia, preferendo metterle una mano sulle spalle. Anche quando postula affermazioni forti sulla sua dipendenza dal palco e dal plauso del pubblico, fa sempre seguire un "ma" che toglie ogni verve al racconto. Nel 2019 si dovrebbe poter parlare di una madre che si dimostra altalenante nelle sue attenzioni per i figli senza sentirsi in dovere di giustificarla continuamente.
Se Judy si piega alle sirene della fama e dei farmaci, il film che ce la racconta è incapace di disattendere le aspettative del pubblico e dell'Academy, per giunta quelle più basse. Renée Zellweger ci mette tanto di suo: lacrime, postura, make-up e voce. Difficile non pensare a Taron Edgerton che fa Elton John, anche se in quell'interpretazione c'è una forza vitale che in Judy non si palesa mai, convenzionale com'è. Guardiamo al bicchiere mezzo pieno: quantomeno a Hollywood, dopo i playback di Rami Malek, vanno imponendosi interpretazioni autentiche anche dal punto di vista canoro.
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Renée Zellweger desiderava interpretare Judy, cantare e soffrire come lei. Ha fatto un ottimo lavoro, ma nel modo (e con il risultato) più convenzionale possibile, che finisce per lasciare piuttosto freddi gli spettatori. Judy è nei cinema italiani dal 30 gennaio 2020.
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