Una premessa è doverosa: rischia di essere un esercizio sterile quello di continuare a storcere il naso dinanzi allo tsunami di sequel e reboot che Hollywood propina da diversi anni a questa parte. È addirittura sbagliato farlo aprioristicamente nel caso della saga di Mission: Impossible, che più che ad un franchise action spionistico somiglia ad una di quelle annate d'oro di un Borgogna: migliora infatti col passare degli anni.
La trilogia iniziale era incappata in alcuni passaggi a vuoto: una certa prevedibilità nello script (il pur elegante primo capitolo a firma Brian De Palma), l'eccessiva forzatura nello stile - il sequel di John Woo, più in linea con un blockbuster con The Rock che con uno spy movie - e un certo appiattimento registrato nel film diretto da J. J. Abrams, di fatto un tentativo poco riuscito di esplorare la sfera intima dell'agente del'IMF Ethan Hunt.
Per fortuna nostra, Tom Cruise ha continuato ad accettare missioni impossibili senza far sì che la saga si autodistruggesse nella spirale del déjà-vu. È così anche per Mission: Impossible - Fallout, sesto appuntamento con Hunt e soci diretto ancora una volta da Christopher McQuarrie dopo l'ottima prova fornita con Rogue Nation. Il nuovo M:I, ancora una volta, bypassa lo scetticismo iniziale dello spettatore in merito alla formula del "seguito del seguito".
Una saga col "Cruise control"
È chiaro che chi si reca al cinema per vedere Mission: Impossible - Fallout stringe preventivamente - e idealmente - un patto con i creativi del film, accettando di sorbirsi la solita storiella del mondo in pericolo, seppur in una variante nuova, aggiustata, perfezionata. E in effetti i pregi del lungometraggio risiedono soprattutto in una dinamicità registica sorprendente anche se mai ossessiva. Il sesto capitolo funzionerebbe anche in assenza di una trama interessante, che comunque c'è ed è giocata su inganni multipli e sulle conseguenze delle scelte di Hunt, sempre più coinvolto emotivamente nel lavoro che è chiamato a svolgere.
È interessante, inoltre, che a dare respiro ad un blockbuster votato all'intrattenimento siano diversi sottotesti che contribuiscono a rendere ancora più complesso il prodotto finale: il "gioco a due" tra Hunt e Walker (la new entry Henry Cavill, decisamente più pronto a premere il grilletto rispetto al "collega"), il triangolo amoroso Hunt-Julia-Ilsa e il continuo oscillare del protagonista tra una condizione para-supereroistica e un contesto larger than life (Hunt sembra sempre sul punto di capitolare, sopraffatto da avversari più preparati che giocano d'anticipo).
Mission: Impossible - Fallout si lega in modo deciso al precedente, rispolverando il villain Solomon Lane (lo interpreta Sean Harris), mente del "Sindacato" che l'IMF ha temporaneamente neutralizzato. La caduta della cellula terroristica avvenuta in Rogue Nation fa in qualche modo da preludio ad una nuova presa di potere: stavolta sono "Gli Apostoli" (un biblico ritorno alle origini per la saga, ricordate Giobbe 3:14?), un gruppo di fanatici guidati dal machiavellico John Lark, colui che filosofeggia - o sarebbe meglio dire vaneggia - di un nuovo ordine mondiale nato dalle ceneri di quello vecchio. I mezzi attraverso cui attuare il piano sono, ovviamente, caos e sofferenza, sotto forma di tre nuclei di plutonio da far detonare in punti strategici del pianeta. Inutile aggiungere chi sarà chiamato a sventare la minaccia globale (sempre se accetterà di farlo)...
Mission: Impossible - Fallout è il capolinea (apparente) di un franchise di successo che pesca ormai dalla serialità televisiva e dalle grandi saghe contemporanee. L'idea di un team-famiglia ricorda il microcosmo di Fast & Furious, mentre è di bondiana memoria la capacità della pellicola di balzare da una location all'altra con disinvoltura, senza mai rischiare di perdere il filo logico della narrazione.
Il progetto mastodontico che vede Cruise pilotare elicotteri (senza l'ausilio di controfigure), sfrecciare in moto per le vie parigine, correre e lanciarsi in "stunt" da scavezzacollo di almeno due decenni più giovani non viene annacquato da un utilizzo spropositato della computer grafica: ne è un esempio lo spericolato inseguimento cittadino, girato alla vecchia maniera degli artigiani di un tempo come Friedkin (il papà del thriller poliziesco con i suoi Il braccio violento della legge e Vivere e morire a Los Angeles) e Frankenheimer.
Lontano dalla misantropia di 007 e dall'individualismo esasperato di Bourne, Ethan Hunt colpisce per il suo camaleontico adattarsi ai mutamenti socio-politici e per come si tuffa in azioni spericolate senza sentire il peso degli anni. Forse non abbiamo ancora visto tutto.
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