Produttori spilorci, stagisti schiavi, attrici (cagne) raccomandate, attori - cani pure loro - che si credono divi dell'età d'oro di Hollywood, registi buoni forse per qualche spot. Potremmo elencarne a non finire di personaggi orribili ma il fatto è che, se si guarda da vicino Boris, è facile scorgere un microcosmo di addetti ai lavori sui generis del mondo dello spettacolo che altro non è che uno specchio deformato (e deformante) della realtà socio-politica italiana degli anni Duemila dominata da compromessi, favoritismi e da una classe dirigente da età della pietra.
La fuoriserie italiana prodotta nel 2007 da Wilder per Fox International Channels Italy - e ora ripristinata nel catalogo Netflix - rappresenta un singolare caso di meta-serialità nel panorama televisivo nostrano per la sua capacità di demolire dall'interno il sistema, ossia l'intrattenimento da piccolo schermo, attraverso una satira ferocissima sul livello delle fiction (molto) italiane, sulla mentalità di certi producer e reti, sui rapporti clientelari che intercorrono tra spettacolo, business e politica, arrivando a dipingere un quadro televisivo di conservatorismo spacciato per locura mentre lontano dal set la società muore un poco alla volta, sepolta dal peso della corruzione, dell'ignoranza e bombardata da fiction a là Occhi del Cuore.
A cosa si deve il successo di Boris?
Ma perché, a distanza di anni dalla prima messa in onda, Boris è così viva nel cuore degli spettatori tanto da parlarne in termini di serie di culto? La risposta, lapalissiana, risiede nella capacità degli sceneggiatori Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo di aver dotato una voce critica da insider dello spettacolo di una "linea, oltre che comica, satirica", per dirla con una terminologia cara agli aficionados della serie TV. Il coraggio unito all'intuizione, quella di sputtanare i mali dell'industria dell'intrattenimento dal di dentro, elaborando una radiografia con tanto di diagnosi di un mondo che viaggia "un tanto al chilo", che smarmella, che porta a casa la giornata nella più totale improvvisazione. Un mondo dove la qualità non paga (anzi, "rompe er ca#!o"), con sceneggiatori profumatamente stipendiati che scopiazzano qua e là e se pure non scopiazzano, si rifugiano negli F4.
È un girone dantesco, quello di Boris, che si adatta perfettamente ad ogni ambito professionale, ad ogni livello sociale: giovani volenterosi schiavizzati e sotto-pagati, inetti avvinghiati alla propria poltrona, viscidi, ipocriti, protetti, disturbati, folli. A pensarci bene, il mondo del lavoro sa essere anche peggio di così e gli autori di Boris hanno arrotondato per difetto nel fotografare con spirito irriverente l'Italia del berlusconismo (in cui tutti ne escono con le ossa rotte, pure gli oppositori del Cavaliere).
Con Boris, insomma, si ride delle brutture e dei mali che affliggono il nostro Paese un po' come si faceva negli anni '70 con Fantozzi. In maniera grottesca, quindi, scuotendo la testa per il disappunto di chi sa che le cose stanno effettivamente così, che la realtà supera la fantasia del piccolo schermo. Del resto, la serie che vede protagonista Francesco Pannofino nei panni del mediocre regista TV René Ferretti è forse l'unica vera erede della commedia all'italiana di un tempo, con quei suoi personaggi "mostri" di risiana memoria, quel linguaggio stracult (da "a cazzo di cane" a "basito") e quel suo indagare il costume, anche se a livello superficiale, vomitando personaggi calati in situazioni paradossali, in vicende surreali, proprio come gli impiegati e i megadirettori immaginati da Villaggio. Dal capo elettricista dai modi da primitivo (il Biascica di Paolo Calabresi) all'ambiguo delegato di rete Lopez (Antonio Catania), passando per direttori della fotografia cocainomani (il Duccio di Ninni Bruschetta) e segretarie di edizioni sciroccate (la Itala di Roberta Fiorentini): tanti i volti da ridere di una serie che presenta un cast da bravo bravissimo chiamato al non certo facile compito di portare in scena la mediocrità. Perché il successo di Boris fa leva sì su una scrittura intelligente, snella e pungente (che guarda al modello statunitense di 30 Rock) ma è completato da performer entrati a far parte dell'immaginario collettivo come Pietro Sermonti, che col suo Stanis La Rochelle (formatosi alla scuola di Marcel Marceau) demolisce lo star system italiano, e Carolina Crescentini, cagna maledetta superlativa (a lei il compito più difficile: recitare come se fosse priva di talento), senza contare Caterina Guzzanti e Alessandro Tiberi, un pizzico di normalità e professionalità in mezzo al pressappochismo delle produzioni di Occhi del cuore e Medical Dimension.
Quella di Boris è un'anomalia irripetibile della TV italiana, a cui si rimane affezionati non solo per i tormentoni folk ("Bucio de c#*o", Martellone dixit) ma per il suo aderire perfettamente al tessuto della società nostrana, adattandosi ad ogni contesto in maniera verosimile. Ci si rivede nel tragicomico che viene raccontato e che di finzione conserva ben poco. E alla fine, dopo tre stagioni, si è consapevoli che un altro modo di vedere le cose (leggi Medical Dimension), più onesto e meritocratico, soprattutto scevro da compromessi, è pura utopia in Italia. E allora W la merda!
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