Un'isola misteriosa, un manicomio criminale, una paziente scomparsa. Martin Scorsese osserva la "legge del 4" e, dopo Gangs of New York, The Aviator e The Departed, ritrova in Shutter Island il suo feticcio Leonardo DiCaprio.
Si tratta di un thriller psicologico tratto dal romanzo di Dennis Lehane, "L'isola della paura", in cui confluiscono verità nascoste, macchinazioni e passato, con un protagonista impegnato - anzi costretto - a mestare nel torbido dei propri (dolorosi) ricordi per risolvere il caso di sparizione di una pericolosa omicida, la detenuta Rachel Solando, evasa dall'istituto psichiatrico Ashecliff Hospital.
Shutter Island è un film in cui nulla di ciò che vediamo è (in realtà) come appare. Ed è proprio sul duplice scarto fra realtà e messinscena che un maestro come Scorsese costruisce il "suo" cinema fatto di rivelazioni, scoperte scioccanti, sinistri presagi, plasmando un'opera su cui aleggia palpabile un senso di morte.
In questa sede intendiamo offrirvi la chiave di lettura ad un film volutamente enigmatico in cui la verità è sepolta sotto una fitta rete di artifici mentali, nascosta nei meandri del labirintico penitenziario (ma non solo). È inevitabile, di conseguenza, la presenza di spoiler d'ora in avanti. Quindi, nel caso non abbiate ancora visto il film che annovera nel cast anche Mark Ruffalo, fareste bene ad interrompere la lettura.
Se invece siete già incappati nel grottesco noir di Martin Scorsese e vorreste far luce sul significato del film, allora vi trovate nel posto giusto.
Shutter Island, la spiegazione del film
Con Shutter Island, evitando inutili giri di parole, Scorsese firma il suo "Truman Show", divertendosi a girare un film nel film. Da un lato, infatti, il cineasta di origini italiane si avventura in un thriller che ammicca per toni al gioiello dell'espressionismo tedesco, Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, omaggiando allo stesso tempo la tradizione del noir in bianco in nero, nello specifico Le catene della colpa di Jacques Tourneur.
Contemporaneamente, Scorsese sorprende (almeno per metà film) non solo lo spettatore bensì pure il suo protagonista con un clamoroso coup de théâtre preannunciato da tetre allucinazioni.Niente è reale di ciò che vediamo.
Nessuna indagine, nessuna attività segreta sull'isola mandata avanti da ex nazisti, nessun reclutamento di spie per mezzo di psicofarmaci. Ma soprattutto, nessun Edward "Teddy" Daniels. Il detective del Bureau a cui presta il volto Leo DiCaprio non è mai esistito, se non nella mente tormentata del protagonista, dilaniato dal senso di colpa per non aver impedito anni prima il massacro dei suoi tre figli per mano della moglie.
Un nome inventato. La professione pure. E la voglia dei partecipanti alla farsa dark di assecondare il disperato tentativo di un uomo di seppellire il proprio passato.
DiCaprio non è un agente federale bensì il paziente del penitenziario psichiatrico Andrew Laeddis (il nome è l'anagramma dello sbirro), impazzito dopo aver rinvenuto i cadaveri dei suoi tre figli nel lago vicino casa. È rinchiuso a Shutter Island dopo aver sparato alla moglie, uccidendola.In sostanza, tutto il film è una colossale messinscena/esperimento per testare il livello di pazzia del detenuto numero 67 (Laeddis).
A prestarsi al gioco sono proprio tutti: dallo psichiatra che ha in cura il protagonista (il Dr. Sheehan, che si spaccia per il collega di Daniels, Chuck Aule) all'enigmatico primario dell'ospedale John Cawley (Ben Kingsley, fenomenale tra esitazioni e sguardi) passando per infermieri, secondini e prigionieri, fino ad arrivare a colui che per almeno un terzo di film sembra essere un villain diabolico: il dott. Jeremiah Naehring di Max von Sydow.
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