Cosa ci faccia il premiatissimo regista francese di Il profeta e Un sapore di ruggine e ossa nel mezzo del selvaggio West (in un’edizione di Venezia già ricca di western), attorniato da volti più che noti del cinema hollywoodiano è un’enigma a cui The Sister Brothers non risponde per lungo tempo. Anzi, il film si traveste da agnello, da innocuo film western che ruota attorno a una coppia di mercenari al soldo del Commodoro. Sono i fratelli Sorelle (da traduzione letterale), assassini prezzolati pronti a sistemare le faccende meno limpide dell’attività del loro ricco datore di lavoro.
Mentre li seguiamo nella loro spietata avanzata per nella frontiera americana, resa ondivaga dal vizio dell’alcolismo di uno e da una serie di incidenti sfortunati dell’altro, mentre risaliamo la fila di cadaveri che si sono lasciati alle spalle, non è chiaro dove sia finito Jacques Audiard. O meglio, gli eleganti movimenti di macchina, le inquadrature che veicolano la forza distruttiva dell’uomo e la bellezza della natura selvaggia ci ricordano che il regista di quel capolavoro intitolato Il profeta è lì, ma non ci chiariscono cosa voglia dirci.
Un francese nel selvaggio western
C’è una nota acuta, uno stridore di fondo in come The Sister Brothers affronta tutta una serie di caposaldi narrativi del genere western. Le scene di tensione nei bordelli e nei saloon ci sono, così come le sparatorie e le ubriacate colossali, le cavalcate nel mezzo della prateria. Eppure è come se Audiard si limitasse a replicare un codice altrui.
L’enigma viene svelato in conferenza stampa: il regista non è un conoscitore del genere e per le atmosfere western si è affidato totalmente al romanzo di partenza di Patrick De Witt. Mentre seguiamo i fratelli mercenari Eli (un John C. Reilly candidato alla vittoria della Coppa Volpi) e Charlie (Joaquin Phoenix) sulle tracce del presunto ladro Hermann Kermit Warm (Riz Ahmed), la storia comincia a colorarsi di pennellate dalle tonalità audiardiane. Dapprima sono bagliori di un’istante, come nella bellissima sparatoria notturna in cui l’oscurità è rischiarata solo dal bagliore dello scoppio dei colpi.
Qua e là appaiono crepe nello stereotipo dei tipi loschi che cavalcano nel West. Eli e Charlie uccidono e sono senza pietà, ma il loro rapporto familiare lascia intravedere una complessità arricchitasi da anni di calvalcate, uccisioni, non detti. Eli in particolare diventerà un personaggio così complesso da travalicare i confini del genere: sulla carta è il più sensibile e imbranato dei due, costretto a prendersi cura del fratello, che con le sue ubriacature e i suoi scoppi d’ira gli creda non pochi problemi.
Dalla sua attenzione all’igiene orale fino alle sue masturbazioni solitarie e ai piccoli, commoventi e insieme patetici rituali romantici veniamo introdotti nel dramma di un uomo costretto alla convivenza forzata col fratello, che soffre profondamente la solitudine e il suo girovagare errabondo e senza radici. Charlie non è altrettanto complesso, mangiato com’è da una miscela di senso di colpa e volontà distruttiva che hanno radici profondissime nel suo rapporto col padre.
I fratelli sono all’inseguimento di un duo altrettanto interessante, forse ancora più audiardiano. La presenza di un attore Riz Ahmed nel ruolo dello scienziato che sogna un mondo più giusto è forse impensabile in un western hollywoodiano con qualche altro nome dietro la macchina da presa. Jake Gyllenhaal ha invece precedenti illustri in territorio di cowboy ma anche qui, nonostante il poco tempo a disposizione, esprimere la malinconia negli occhi di chi cavalca verso l’orizzonte, spesso pieni non di sogni ma di disillusione.
Comunanza e solitudine: il western secondo Audiard
Quando la caccia all’uomo viene messa da parte e Audiard parte all’esplorazione dei sentimenti complessi delle due coppie di personaggi, quando si arriva a un momento fugace ma intenso di comunanza in uno scenario naturale che finalmente dona serenità, ecco che l'orchestrazione del regista francese si fa palese. Audiard rimane pressoché inimitabile per come racconta l’interiorità umana in personaggi a cui normalmente non viene concessa questa complessità.
Saranno i bagliori dorati dell’oro e della cupidigia a mettere fine a questo fugace riflesso di fratellanza, ma ormai il cineasta è uscito allo scoperto, lasciando cadere le spoglie del western per raccontare (con un'inaspettata ironia che stempera i suoi toni solitamente drammatici) una storia esistenziale e umana di grande intensità.
Che si trovi in Corsica o nel West, Audiard rimane un regista la cui maestria tecnica è uguagliata dalla capacità di imprimere potenza ai drammi interiori dei suoi personaggi, fino a farli risuonare nel petto dello spettatore. È una dote che non tutti hanno dimostrato di avere in quest’edizione.
Attenzione dunque al francese (che vanta già una Palma d’Oro e un Gran premio della giuria a Cannes) in una corsa al Leone più aperta che mai.
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Voto di Cpop
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