Non è un momento facile per la comicità e la satira politica. In un mondo sempre più incerto, tagliente e senza limiti, mancano i punti fermi e intoccabili che gli iconoclasti possano tentare di distruggere per farci ridere. La comicità migliore è quella un po' sacrilega, il cui effetto deriva dalla valenza di alcuni argomenti circondati da un'aura di tabù o di sacralità, tanto che al solo nominarli suscitano un'impressione forte, potente. Le persone si sentono spesso spaesate da un mondo sempre più senza punti fermi. Politica, religione e scienza sentono sgretolarsi la loro autorevolezza, la solidità che le ha rese un bersaglio comico per eccellenza.
Per questo io, che per mia stessa ammissione non sono proprio un'estimatrice del modo d'intendere la parodia politica incarnato da Cetto La Qualunque, ero piuttosto curiosa di vedere dove sarebbe andato a parare il terzo film che lo vede protagonista, intitolato Cetto c'è senzadubbiamente. È così vero che è diventato banale dirlo, ma la politica con le azioni ma soprattutto con le parole (sui social) si spinge ogni giorno così oltre e così in basso che diventa impossibile irriderla in chiave iperbolica, superarla, rilanciare all'eccesso.
Nell'ultimo decennio di tramonto berlusconiano Cetto è stato proprio questo: la caricatura greve, eccessiva e iperbolica di un certo modo di fare politica a livello locale e nazionale. La stella di Cetto ha brillato al botteghino sia con Qualunquemente (2010) sia con il sequel Tutto tutto, niente niente (2012), con un tamtam mediatico e culturale che sorprende, data la fattura grossolana delle pellicole in questione.
Cetto e Antonio di nuovo insieme
Il merito è da attribuirsi quasi interamente ad Antonio Albanese. Non solo per aver creato il personaggio, ma per averlo modulato e mediato molto più di quanto si creda, tenendo insieme chi vede Cetto come un'eroe per il suo malaffare malandrino disinibito in campo politico e amoroso, chi lo considera una fine opera di satira e chi si accontenta delle poche scene in cui Albanese si fa serio e tagliente. Insomma, Cetto ha il merito di tenere insieme l'alto, il basso e il bassissimo, come contenuto e come aspettativa. Il regista dell'operazione Giulio Manfredonia ha fornito e torna a fornire ben poco di cui entusiasmarsi, sul fronte tecnico.
La vera novità di Cetto c'è senzadubbiamente è che la pochezza produttiva degli esordi è scomparsa, rimpiazzata da un certo lusso nelle scenografie e negli allestimenti, sempre esagerati e sopra le righe. Altra sorpresa da registrare è che il film tenta tenacemente di tenere insieme una certa coesione narrativa, quasi che fosse una saga con rimandi interni. I primi due film faticavano molto a sembrare un'opera unica, fluivano come una serie di sketch tenuti insieme da una sottile vena narrativa. Qui invece tutto è più coeso, almeno all'inizio, tanto da gettare ponti con i precedenti film, lavorando su collegamenti, ripetizioni e cambiamenti.
Temevo che Cetto c'è senzadubbiamente si rivelasse una visione intollerabile, facendomi sentire in colpa per il mio approccio snobbista. Invece mi ha colmato di una bella dose di tristezza. Nell'attuale, desolante standard del cinema commerciale nostrano il film è tra il medio e il mediocre, sicuramente più che pronto a soddisfare gli appassionati di Cetto, genuinamente divertiti dalla facile comicità televisiva di cui è figlio. C'è persino una punta di cinema in più, a livello produttivo.
La sconfitta di Cetto
A renderla una visione quasi malinconica è il percepirci dentro lo stesso straniamento della gente di fronte alla nuova realtà e alla nuova politica che la circonda. Nemmeno Cetto sa come rapportarsi alla stessa e così fugge in una dimensione irreale, escapista: quella della monarchia. Se nel suo precedessore Albanese si era diviso in tre, guardando oltre che al berlusconismo alla realtà leghista, qui la politica è una vuota parola, una realtà lontana e mai definita. Il film sembra svolgersi nella fiaba che racconta la zia morente a Cetto, rivelandogli di essere il figlio illegittimo della madre ricamatrice e dell'ultimo erede del casato Buffoni di Sicilia, di sangue borbonico. Altrettanto favolistica è la realtà tedesca in cui Cetto è fuggito, in cui lo ritroviamo all'inizio del film.
Introdotta la sfida monarchica il film perde via via in realismo, ricadendo nel suo vizio di farsi lieve (quando non superficiale) per evitare di fare veramente sul serio. Cetto è sboccato, fedifrago, un essere umano davvero orrendo, eppure lascia un'impressione tiepida, fuggevole, fatica a indignare. Ci sono però un paio di momenti in cui a parlare è Albanese e non Cetto. Non a caso, sono i passaggi migliori del film, in cui la comicità si fa più incisiva e cattiva, in cui s'irride non la stupidità di chi comanda ma di chi si fa comandare.
Ecco, sarebbe bello se Albanese facesse tutto un film così, una pellicola che saprebbe davvero toccare nervi scoperti e questioni scottanti. La serietà al cinema (anche in campo comico) è però l'ultimo vero tabù rimasto in campo cinematografico, dentro e fuori l'Italia. Chi si mette contro l'escapismo a tutti i costi lo fa con la consapevolezza di svuotare la sala. Si vuole ridere, non si vuole pensare, forse. Così che le cose più rilevanti da dire su questo film e su buona parte del cinema italiano continua ad averle dette Boris - la fuoriserie italiana, che a 12 anni dalla sua messa in onda mantiene inalterata la sua crudele saggezza. I mali della comicità italiana e del nostro cinema commerciale rimangono invece sempre gli stessi.
Cetto c'è senzadubbiamente sarà nei cinema italiani a partire dal 21 novembre 2019.
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