Road House, recensione: su Prime Video Jake Gyllenhaal sfida Conor McGregor

Autore: Paolo Falletta ,

Prendete uno dei cult più goliardici di fine anni ‘80, sostituite al mitico Patrick Swayze un Jake Gyllenhaal sempre più a suo agio nei panni del lottatore, aggiungete un Conor McGregor su di giri a rinnovare il personaggio di Jimmy Reno e a mettere i bastoni tra le ruote al protagonista e voilà: Road House è la versione esagerata (sembrava impossibile ma è proprio così) del film di Rowdy Herrington, un trionfo di botte da orbi che diverte e non si prende mai sul serio. 

Accedi a Prime Video con il tuo abbonamento Amazon Prime

Di cosa parla Road House?

In Road House, nuovo film diretto da Doug Liman disponibile su Prime Video, l’ex lottatore della UFC Elwood Dalton viene assoldato da Frankie, proprietaria di un roadhouse sull’isola di Glass Key: il suo compito è mantenere l’ordine e tenere a bada le risse all’interno del locale che la giovane ha ereditato dallo zio. Dalton accetta un po’ per migliorare la propria situazione economica, un po’ per rimettere in sesto la sua vita. A Glass Key, però, la situazione si rivela più spinosa del previsto e quando il buttafuori finisce per intralciare gli affari del malfattore Ben Brandt il suo compito fa presto a complicarsi. 

Basta un solo minuto per capire che Road House punterà deciso sulla resa spettacolare dei combattimenti, cinque per capire che l’Elwood Dalton di Jake Gyllenhaal ha qualcosa che non va, dieci per scoprire di cosa si tratta: quel Dalton ha tutta l'aria di essere uno psicopatico con un enorme scheletro nell'armadio. 
Road House spicca proprio per la capacità di gettare lo spettatore dentro alla rissa, di coreografarla in maniera mai banale, di renderla realistica pur nella sua esagerazione amplificando il rumore sordo di tutti i colpi assestati, seguendoli con continui colpi di frusta della macchina da presa, scegliendo soluzioni immedesimanti come il first person shot. Un espediente linguistico direttamente prelevato dal codice videoludico che in Road House non costituisce un unicum e si espande alla struttura narrativa e alla caratterizzazione macchiettistica dei cattivi. 

Il fascino indiscreto della bidimensionalità

Se da un lato la progressione graduale della forza dei nemici che mettono alle strette Dalton è più accentuata che mai e mima i livelli di difficoltà di un qualsiasi picchiaduro che incontra i beat ’em up, dall’altro proprio quei nemici, Knox su tutti, sembrano usciti da un videogioco di seconda fascia pieno di villain bidimensionali. Sia chiaro, nel contesto costruito da Road House questo non è affatto un difetto e il personaggio di McGregor, così come il Ben Brandt interpretato da Billy Magnussen e i suoi sgherri, funziona proprio perché estremamente stereotipati, tanto aderenti ai cliché da risultare caricaturali, quasi parodistici.

L’idea è di assicurare al personaggio antieroico di Elwood Dalton una caratterizzazione che contrasti con la piattezza dei suoi antagonisti, di puntare sul suo passato traumatico e tormentato per giustificarne il temperamento, di fornirgli un’etica rigida all’interno di limiti che superano la morale convenzionale. Nulla di trascendentale, perché il personaggio di Dalton è comunque coerente con il tono scanzonato e facilone della pellicola, ma quanto necessario per far di lui un moderno antieroe western, violento ma mai in maniera gratuita, spregevole ma non quanto i suoi nemici.

Dalton è un outsider, ha istinti autodistruttivi, sembra non provare paura. È un forestiero che si fa giustiziere perché a Glass Key non rimane nessuna figura ad incarnare la giustizia. L’isola è la trasfigurazione della tipica cittadina senza legge del selvaggio West, un microcosmo di violenza e anarchia in cui non si entra e da cui non si esce, con piantagrane e criminali a scorrazzare impuniti per le strade, con uno sceriffo corrotto a dare manforte, con un saloon da proteggere dai soprusi di chi vuole assaltarlo.

Dalton ha pure la stessa aura mitica da invincibile, lo stesso passato di incubi e di fantasmi, non può essere un eroe perché non è senza macchia. E qui la scelta di Doug Liman di privarlo di una spalla maschile e di renderlo ancor di più (rispetto all’originale Il duro del Road House) un lupo solitario ripaga, perché è condizione fondamentale per configurarlo come una versione contemporanea del pistolero del Far West. 

Il pugno più veloce del West

Road House è, insomma, un western prestato al fighting movie che vive di qualche momento di sorprendente comicità che si alimenta proprio di quella rappresentazione caricaturale degli antagonisti, di personaggi tanto stupidi quanto impacciati, tanto folli quanto imprevedibili.

Discorso a parte per lo spassoso Knox di Conor McGregor, per cui l’overacting (sorge in realtà il dubbio che The Notorious non stia recitando) gigioneggiante dell’artista marziale irlandese calza a pennello. Il boss finale è la versione iperbolizzata del fuorilegge fuori di senno e l’idea di affidare la parte al famoso lottatore di MMA è una scelta di casting azzeccata e molto intelligente perché è uno di quei casi in cui il personaggio acquisisce qualcosa della propria caratterizzazione dalla personalità pubblica dell’attore che ne dà il volto, dalla figura impressa nell’immaginario sportivo e popolare.

Road House usa, insomma, la fama dell’interprete per generare un’aspettativa nello spettatore, per gonfiarne l’aria di pericolosità: la realtà che incontra la diegesi, l’elemento extratestuale come componente interpretativa del film. 

Certo, Road House si adagia su una scrittura davvero ridotta all’osso, rinuncia a dare reale peso a una sottotrama amorosa relegata a margine (e in questo senso il personaggio interpretato dalla portoghese Daniela Melchior è davvero poco utile ai fini dell’avanzamento della trama), si sforza poco di strutturare un appena accennato lato thriller (le questioni legate al narcotraffico non vengono approfondite), ma è una superficialità voluta in maniera insistente per mettere al centro di tutto la traiettoria del protagonista e dare spazio alla cruda e semplice lotta a mani nude, privata di orpelli e di sovrastrutture narrative, visto come momento di schietta opposizione tra un corpo e un altro (e c’è una certa attenzione anatomica, una curiosa accuratezza “infortunistica” come fattore peculiare).

Insomma, Road House sopperisce ad una narrazione semplice e imbottita di cliché con una genuinità che è difficile non apprezzare, diverte e intrattiene senza pretese replicando la spregiudicatezza del film del 1989 e riuscendo nell’impresa di uscire tutto intero dal confronto, ancora più screanzato, ancora più tamarro. 

Advertisement

Commento

cpop.it

70

Road House è il remake esagerato del cult del 1989, versione tanto spregiudicata e divertente quanto il film con protagonista Patrick Swayze, con un Jake Gyllenhaal in più e un Conor McGregor mattatore in una pellicola che prende in prestito alcuni espedienti dell'ambito videoludico e coniuga i topoi del western con gli elementi tipici del fighting movie. Il film disponibile su Prime Video è la poca ortodossa redenzione di un antieroe che usa ogni mezzo per far fuori i malfattori di turno e proteggere il saloon a suon di pugni.

Pro

  • Alto grado di immedesimazione durante i combattimenti
  • Siparietti comici sorprendenti
  • Un Conor McGregor esagerato

Contro

  • Scrittura pigra
  • Qualche cliché di troppo
  • Sottotrama amorosa trascurata
Non perderti le nostre ultime notizie!

Iscriviti al nostro canale Telegram e rimani aggiornato!

Sto cercando articoli simili...