George A. Romero: tutti i film diretti dal maestro degli zombie

Autore: Chiara Poli ,

George A. Romero è famoso per aver dettato le regole dello zombie movie. Ma ha diretto anche diversi altri film, principalmente nell’ambito del genere horror ma non solo. E sempre carichi - proprio come i suoi film sugli zombie - di pungenti metafore sulle contraddizioni della società moderna.

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Scomparso nel 2017, il grande regista ha anche lavorato per la TV, con gli episodi della serie di documentari The Winners, dedicata alle star dello sport e prodotta dallo stesso Romero per tre stagioni negli anni ’70.

Il genere documentaristico lo appassionava quanto lo sport e lo spinse a girare, nel 1974, anche un documentario sul grande campione O.J. Simpson, intitolano Juice on the Loose. Molti anni prima che Simpson fosse protagonista del caso di duplice omicidio, di una delle fughe più famose nella storia moderna degli USA e di un processo il cui esito ha sbalordito il mondo intero.

Romero ha anche recitato in molti dei suoi film, comparendo con diversi cameo, ma anche regalando apparizioni memorabili - spesso senza comparire nei titoli - in film come Il silenzio degli innocenti (era un agente del FBI a Memphis) e Il volo migratorio dell’oca, incentrato sulla storia di un uomo di Pittsburgh (la sua amata città) che rapisce una modella e la porta a Los Angeles.

Credeva molto nella forza delle donne e nella necessità di considerarle pari agli uomini: il femminismo permea molte fra le sue pellicole, mostrando la modernità del suo approccio alla società e alle sue ingiustizie.

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Sempre alla mano, disponibile con i fan e con i colleghi, era molto amico di Dario Argento, cosa che lo spinse a scritturare la figlia Asia per La terra dei morti viventi... Con risultati recitativi che lasciavano alquanto a desiderare. Ma le amicizie di vecchia data non si tradiscono. E già nel 1990, Romero e Argento si erano divisi la regia di Due occhi diabolici, horror in due episodi ispirati dai racconti di Edgar Allan Poe. 

Ripercorriamo insieme la carriera di Romero come regista, ricordando che ha scritto e prodotto quasi tutti i suoi film - e diversi altri progetti - e ha lavorato anche come direttore della fotografia, montatore e operatore, nonché come autore di fumetti a tema per DC Comics: si era inventato un mestiere, negli anni ’60. Ma soprattutto un genere. E aveva imparato a farlo tutto da solo… Con risultati eccellenti. 

La notte dei morti viventi (1968)

Sceneggiatura: George A. Romero, John Russo
Durata: 96’

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La genesi dell’indiscusso capolavoro di George Andrew (ecco per cosa sta la A) Romero è piuttosto famosa: La notte dei morti viventi venne girato nei weekend, in bianco e nero per contenere i costi - con un budget appena superiore ai 100.000 dollari - e ne incassò 30 milioni in tutto il mondo.

Sfortunatamente, data l’inesperienza, Romero vide gran poco di quegli incassi stratosferici, che vennero tenuti dai distributori perché il regista non si era tutelato a norma di legge.

Quindi no: Romero non era diventato milionario. Ma aveva scritto e diretto il miglior film di zombie nella storia del cinema, e gettato le basi per una carriera indimenticabile.

L’idea rivoluzionaria degli zombie che escono dalle loro tombe e danno la caccia ai vivi, divorandoli o infettandoli, gli venne per raccontare il disagio della società in cui viveva.

Ispirato dal capolavoro letterario di Richard Matheson, Io sono leggenda, Romero sostituì i vampiri con gli zombie per portare in scena tutti i tabù della società (e del cinema).

Dal matricidio al cannibalismo, dall’odio razziale al consumismo, La notte dei morti viventi denunciava la discriminazione verso le persone di colore, il maschilismo che considerava le donne come esseri deboli incapaci di difendersi e l’incapacità dell’uomo di affrontare situazioni che sovvertivano l’ordine naturale delle cose.

Metafora dell’omologazione e della perdita d’identità, gli zombie eravamo noi. Tutti noi. A terrorizzare era l’aspetto primitivo e istintivo di queste creature, in un’epoca in cui la paura della diversità spingeva verso l’omologazione. Senza dimenticare la feroce critica verso la guerra in Vietnam.

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Tutto questo a partire da una pellicola in cui, per simulare il sangue, veniva usato lo sciroppo di cioccolato che la troupe metteva sui pancake a colazione, e la casa usata come ambientazione principale era stata affittata dal proprietario per pochi soldi, perché già destinata alla demolizione.

Nel 1990 il celebre mago degli effetti speciali Tom Savini diresse un remake, prodotto dallo stesso Romero e girato dalla stessa troupe che aveva lavorato all’originale.

Contrariamente a quanto molti pensano, Savini non lavorò come responsabile del make-up al film originale: Romero, che l’aveva conosciuto quando Savini aveva fatto un provino da attore, si ricordava del suo talento con il make-up e lo convocò per il lavoro. Savini, benché entusiasta dell’idea, dovette abbandonarla perché chiamato sotto le armi e inviato in Vietnam. 

There’s Always Vanilla (1971)

Sceneggiatura: Rudolph J. Ricci
Durata: 93’

Basato su una storia ideata dallo stesso Ricci, il film era una commedia romantica incentrata su un giovane veterano, Chris Bradley (Ray Laine).

Dopo aver lasciato l’esercito, Chris non vuole far altro che godersi la vita. Non vuole e non cerca un impiego fisso, non sopporta qualsiasi genere di costrizione e ama conoscere gente sempre nuova. Quando s’innamora di Judith Riley (Lynn Harris), però, le cose cambiano. Judith è più grande di Chris e all’inizio lo supporta in tutto, economicamente ed emotivamente.

Chris sogna di diventare uno scrittore e inizia a scrivere un romanzo al quale lavora con poco impegno. Judith lo spinge a trovarsi un lavoro regolare, ma Chris resiste ben poco. Quando Judith scopre di essere incinta, sa che Chris non sarà in grado di mantenere lei e il bambino. Così decide di non dirgli niente.

Quando sceglie di tenere il bambino, torna nella sua città natale e sposa un vecchio fidanzato, che secondo lei sarà un buon padre e un buon marito.

Chris, rimasto solo, finisce per lavorare per il padre… Il quale lo consola dicendogli che, anche quando i gusti della vita sembrano amari, “c’è sempre la vaniglia”.

Romero lo ha sempre considerato il suo peggior film (e la critica era d’accordo con lui). L'ottimismo non era il suo forte.

Inoltre, non lavorò mai più con Ricci, che aveva accusato di essere pigro e poco interessato alla realizzazione del film: lo sceneggiatore, infatti, aveva lasciato il set prima che la lavorazione fosse arrivata a metà strada. 

La stagione della strega (1972)

Sceneggiatura: George A. Romero
Durata: 130’

Mai uscito in sala in Italia, La stagione della strega (Hungry Wives in originale) venne distribuito da noi solo a partire dagli anni ’90, in VHS.

Siamo a Pittsburgh, dove una casalinga maltrattata dal marito, Joan (Jan White) e stanca della sua vita di serva della famiglia si avvicina a una nuova arrivata in città, Marion (Virginia Greenwald), appassionata di magia. Joan e alcune altre sue amiche iniziano a frequentare Marion, che in realtà è una potente strega e fa parte di una setta composta di sole donne.

Credendo di trovare la soluzione a tutti i suoi problemi, Joan inizia a praticare la magia. Finirà in tragedia.

Nell’edizione DVD originale, George A. Romero commenta il film e afferma che è sempre stato l’unico di cui avrebbe volentieri girato un remake. Ai tempi della realizzazione, infatti, i fondi erano molto scarsi (inferiori a quelli recuperati per La notte dei morti viventi) e non gli permisero di inserire tutte le scene e gli effetti che avrebbe voluto usare.

Anche il montaggio fu uno scoglio. Romero se ne occupò personalmente (e lavorò al film anche come direttore della fotografia), impiegando molto tempo… E lasciando metà del girato sul pavimento della sala di montaggio.

Il primo titolo scelto da Romero era Jack’s Wife (La moglie di Jack), che sottolineava ulteriormente come Joan venisse considerata non una persona, bensì un’appendice del marito.

L’attenzione di Romero per la forza delle donne e per le ingiustizie sociali e famigliari di cui erano vittime continua a rimanere una delle tematiche centrali del suo cinema.

Con questa pellicola, in particolare, mostra come non esistessero soluzioni “magiche” per migliorare la condizione femminile e come l’unica via fosse un impegno collettivo, di uomini e donne.

La città verrà distrutta all’alba (1973)

Sceneggiatura: George A. Romero sulla base di una sceneggiatura di Paul McCullough
Durata: 103’

Uno dei migliori film di Romero, incompreso come molte delle sue opere. Costato 275.000 dollari, ne incassò poco più di 150.000 nelle sale USA.

La storia di The Crazies - questo il titolo originale - è ambientata a Evan’s City, cittadina della Pennsylvania, sconvolta dalla diffusione di un’arma biologica chiamata Trixie che fa impazzire la gente.

Trixie si diffonde per errore, in seguito a un incidente aereo che coinvolge un bombardiere diretto altrove e, mentre in città tutti perdono la ragione, uccidono e devastano, il Governo fa di tutto perché non si venga a sapere la causa della follia collettiva.

Un altro film di denuncia, stavolta contro le armi segrete dell’esercito e i complotti governativi tesi a nasconderle.

A dieci anni dall’omicidio di JFK, Romero gira una storia che viene in pratica boicottata dai distributori.

Il film arriva in poche sale, gli incassi sono un disastro e la carriera di Romero (che, come sappiamo, non riuscì a trarre beneficio dal successo commerciale de La notte dei morti viventi) continua a ruotare attorno a grandi idee da realizzare con scarsi fondi.

La maledizione di Romero, la sua modernità e la sua capacità di usare il genere horror per evidenziare tutti i mali del mondo reale continuano a renderlo inviso ai critici e all’industria del cinema mainstream.

La città verrà distrutta all’alba, di cui Breck Eisner realizza un perdibile remake nel 2010, scava nell’animo delle persone mostrando le loro reazioni a un attacco inaspettato, ingiusto e per di più tenuto segreto proprio da parte di chi avrebbe dovuto aiutarle.

Un grande film, con grandi potenzialità, rivalutato dalla critica solo a posteriori.

Per me, insieme a La notte dei morti viventi e Zombi, resta il migliore esempio della filosofia cinematografica di Romero.

The Amusement Park (1973)

Daniel Kraus
Un'immagine dal film The Amusment Park
Un'immagine da The Amusment Park di Romero, diffusa da Daniel Kraus su Twitter

Sceneggiatura: Wally Cook

Mai uscito al cinema, mai distribuito, mai visto. 

La storia di un uomo che si appresta a passare un pomeriggio spensierato in un parco divertimenti, trovandosi invece nel bel mezzo di un incubo sanguinario, venne rifiutata da tutti i distributori poiché ritenuta troppo cruenta.

Dopo averlo cercato per due decenni, lo scrittore Daniel Kraus è riuscito a vederlo e ha diffuso molti tweet in cui si definisce entusiasta della pellicola, conscio dei motivi che ne impedirono l’uscita e determinato a renderlo accessibile a tutti. 

Speriamo ci riesca davvero.

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Wampyr (1978)

Sceneggiatura: George A. Romero
Durata: 95’

Dopo il flop ai botteghini del film precedente, finalmente Romero si ripaga ampiamente dei costi (un budget di circa 80.000 dollari per incassi ai botteghini USA che superano i 100.000).

La sua idea di horror a basso costo per raccontare qualcosa che riguarda la realtà, e non certo il mondo del soprannaturale, continua con questa riuscita pellicola.

La trama ha per protagonista un ragazzo di nome Martin (John Amplas) che, convinto di essere un vampiro, si nutre del sangue di giovani donne che mette k.o. con dei potenti sedativi.

Tom Savini lavorò finalmente come responsabile degli effetti speciali (ricorderete l’impedimento che lo esonerò dagli effetti de La notte dei morti viventi), e Romero non fa mistero di adorare questo film, che considera il suo preferito di sempre.

Finalmente anche la critica ne riconosce il valore, e Wampyr viene inserito nella lista dei migliori horror d’autore degli anni ’70.

Il montaggio preliminare arrivava a quasi 3 ore di film e Romero fu costretto a lavorarci per ridurli drasticamente, arrivando a ottenere una durata “standard” per i film dell’epoca.

Presentato per la prima volta al Festival di Cannes del 1977, Wampyr venne rimontato per la distribuzione in Europa. A occuparsene fu Dario Argento - che iniziò formalmente la sua collaborazione con Romero, di cui diventò grande amico - che sostituì anche parte della colonna sonora originale con la musica dei Goblin (fedeli compositori per i suoi film più famosi).

Zombi (1978)

Sceneggiatura: George A. Romero
Durata: 127’ (156’ per l’edizione Ultimate Final Cut)

Finalmente un nuovo, grande successo commerciale. Stavolta per un uomo consapevole di ciò che andava fatto per farsene riconoscere i diritti.

Zombi (Dawn of the Dead), ambientato nel tempio del consumismo - un centro commerciale come noi ne avremmo visti solo vent’anni dopo - è costato 650.000 dollari e ne ha incassati 5 milioni solo ai botteghini USA, per arrivare a 55 in tutto il mondo.

La filosofia di Romero, che ancora una volta si serve della metafora horror per raccontarci quanto siamo schiavi dei beni materiali, dell’egoismo, delle cose inutili e del superfluo, viene accolta a braccia aperte dal grande pubblico.

L’atmosfera claustrofobica - dopo aver ripulito il centro commerciale dagli zombie, i sopravvissuti dovranno comunque restarvi confinati, sempre - si unisce a una buona dose di splatter e di tensione nel raccontarci l’unione di due agenti della S.W.A.T. di Philadelphia con due reporter - di cui una donna incinta - per sfuggire ai morti viventi che, improvvisamente, iniziano a braccare i vivi.

La frase pronunciata da Peter (Ken Foree) è diventata la citazione più celebre del film, ed è stata citata in molte opere successive:

Quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla Terra.

Ancora una volta, per precisa volontà dell’autore non ci viene data alcuna spiegazione sull’origine dell’epidemia, ancora una volta a contare sono solamente le reazioni delle persone.

E ancora una volta, in testa ai sopravvissuti, c’è una donna. Col pancione. L’emblema della vita per eccellenza, che permette a Romero di proseguire nella sua idea di forza femminile e che ci regala alcune sequenze indimenticabili (come quella alla stazione di servizio, esplicitamente omaggiata dal pilot di #The Walking Dead e interpretata dai due giovanissimi nipoti di Tom Savini).

Se La notte dei morti viventi aveva dettato le regole dello zombie movie, Zombi le incide nella pietra. Consacrando George Romero a indiscusso maestro del genere.

Girato a Pittsburgh ma ambientato a Philadelphia, Zombi venne scritto da Romero a Roma, dove Dario Argento - saputo che stava lavorando a un nuovo film di zombie - l’aveva invitato a lavorare senza distrazioni, in meno di tre settimane. Fu Argento a selezionare la maggior parte della colonna sonora per lui.

Tom Savini, responsabile degli effetti speciali e protagonista come attore di una delle scene più cruente, lavorò al trucco perché la pelle dei morti viventi risultasse grigia, ispirandosi al make-up de La notte dei morti viventi.

La pellicola del 1968, però, era in bianco e nero, e l’effetto ottenuto da Savini fu un azzurro che, sebbene ottenuto per errore, divenne il simbolo distintivo degli zombie di Romero.

La protagonista femminile, Gaylen Ross, non urla mai durante il film. Quando Romero le chiede di gridare la prima volta, gli rispose che il suo era un personaggio femminile forte e che le grida eccessive l’avrebbero fatto sembrare debole. Romero fu d’accordo con lei. E le permise anche, come aveva chiesto, di non servirsi di una controfigura per le scene di lotta: l’attrice pensava che il suo personaggio dovesse dimostrare che era in grado di badare a se stessa, senza trucchi.

Per girare la scena in cui i motociclisti assaltano e invadono il centro commerciale ci vollero due notti intere, sui quattro mesi totali impiegati per girare.

Il centro commerciale usato per le riprese si trova a Monroeville, nei dintorni di Philadelphia, e ancora oggi viene visitato dai fan del film, nonostante sia stato più volte ammodernato dall’epoca delle riprese.

Nel 2004 Zack Snyder ne realizza un apprezzabile remake, con lo stesso titolo, che ne ripropone le tematiche principali. Il film è riuscito, ma l'originale non si batte...

Knightriders - I cavalieri (1981)

Sceneggiatura: George A. Romero
Durata: 146’

Primo e unico film d’azione e avventura diretto da Romero, interpretato da Ed Harris e Tom Savini, Knightriders fu anche la prima pellicola del regista con un budget rilevante (3 milioni di dollari).

Uscito in Italia solo in home video con il sottotitolo “I cavalieri”, Knightriders racconta la storia di un gruppo di motociclisti che vivono ispirandosi ai valori dei Cavalieri della Tavola Rotonda, riproducendone anche gli abiti.

Il capo è Billy (Ed Harris), il Re Artù della situazione che combatte contro la corruzione (nella persona del vicesceriffo locale),  ma all’interno del gruppo c’è chi vuole fare dei Cavalieri una fonte di maggior guadagno e cerca di sottrarre a Billy la corona…

Nonostante una buona accoglienza da parte della critica, il film non piacque al pubblico soprattutto per via della lunghezza: all’epoca, due ore e mezza di film rappresentavano un vero e proprio tour de force per gli spettatori e molti ne vennero scoraggiati.

Il film uscì nelle sale il 10 aprile del 1981, due giorni prima dell’Excalibur di John Boorman che raccontava la storia dei Cavalieri della Tavola Rotonda, ma in maniera molto fedele all’originale e con un budget quasi 4 volte quello di Romero.

Knightriders non venne mai distribuito al cinema in Italia (né in molti altri Paesi).

Oltre all’ormai immancabile Tom Savini, nel film compaiono in un cameo anche #Stephen King e la moglie Tabitha. King si trovava sul set perché all’epoca stava già lavorando insieme a Romero alla sceneggiatura del suo film successivo, Creepshow.

Creepshow (1982)

Sceneggiatura: Stephen King
Durata: 120’

La presenza di Stephen King, che all’epoca rappresentava già un nome di grande rilevanza, consentì a Romero di ottenere un budget sontuoso: 8 milioni di dollari, il più alto visto fino a quel momento. Gli incassi ai botteghini USA sfiorarono i 20 milioni.

L’uomo delle produzioni indipendenti e dei film a basso costo era ufficialmente entrato a far parte del dorato mondo di Hollywood… Nonostante questo avesse cercato di tenerlo alla larga in tutti i modi.

Pieno di ironia, di citazioni alla cultura pop e di commenti irriverenti, Creepshow voleva mantenere lo stile dell’omonimo fumetto da cui era stata tratta l’idea.

Nel cast, Romero fa ritornare alcuni attori che avevano già lavorato con lui, da Ed Harris a Gaylen Ross.

Stephen King interpreta Jordy Verrill in uno dei cinque episodi di questo film su storie dell’orrore. Il make-up che gli venne applicato da Tom Savini in persona gli causò una reazione allergica, ma King volle solo dei medicinali che calmassero la reazione per consentirgli di girare la scena.

Il film, l’unico della sua carriera in cui Romero non firma la sceneggiatura, è infarcito di riferimenti alla vita e alle opere di King.

Il bambino protagonista del primo episodio è Joe, il figlio di King. Durante una pausa dalle riprese, Stephen portò il ragazzino - con indosso il trucco di scena - a un fast-food, per ritirare del cibo d’asporto. La cameriera chiamò la polizia, pensando che il bambino fosse stato vittima di abusi.

In uno degli episodi si vede un cartello che indica la cittadina di Castle Rock, i nomi dei personaggi Tabitha e Richard sono quelli della moglie e dello pseudonimo dello scrittore e nell’episodio interpretato da King l’ambientazione è Portland, la sua città natale.

I fumetti di Creepshow vennero pubblicati dalla EC Comicis dal 1945 agli anni ’50, per essere poi cancellati a causa della censura.

Creepshow fu l’occasione in cui Romero e King, amici da molto tempo, riuscirono finalmente a lavorare insieme. In seguito, Romero diresse l’adattamento del romanzo di King: La metà oscura.

Il giorno degli zombi (1985)

Sceneggiatura: George A. Romero
Durata: 96’ (101’ per la Unrated Version)

Intitolato Day of the Dead - dopo Dawn of the Dead - il film chiude idealmente la trilogia iniziata con La notte dei morti viventi e proseguita con Zombi.

La storia racconta di come, quando il mondo è ormai invaso dagli zombi, un gruppo di scienziati conduca in Florida esperimenti segreti con lo scopo di “addomesticare” i morti viventi e usarli come arma per l’esercito. Protetti da un plotone di militari, gli scienziati - in particolare il capo progetto, il Dottor Logan (Richard Liberty) - entrano in conflitto con i comandanti dell’esercito, in competizione con loro su chi debba comandare la base.

Lo scontro diverrà sempre più aspro e pericoloso, fino a quando l’infezione finirà per distruggere la base.

Gli unici tre sopravvissuti troveranno rifugio su un’isola, sulla quale gli zombi non sono mai arrivati.

Nel cast del film ci sono anche un altro mago degli effetti speciali, futuro produttore esecutivo e regista di The Walking Dead, Greg Nicotero e Sherman Howard (Seinfeld).

Howard interpreta Bub, l’unico zombie docile che compare nel film e che il dottor Logan usa come dimostrazione del possibile successo dei suoi esperimenti.

Stavolta, la denuncia è espressamente rivolta contro quelle che negli USA erano note come le “follie di Reagan”, ovvero le molte imprese militari (dall’invasione di Grenada all’Irangate e agli interventi armati in Libia), che si lasciarono dietro una lunga scia di sangue.

Non a caso, al centro della storia - e di chi finisce per peggiorare la situazione, dimostrandosi al solito peggiore degli zombi - ci sono i militari. E non a caso, questo è senz’altro il film più gore e splatter realizzato da Romero, per la precisa volontà di sottolineare l’orrore della guerra e delle azioni militari.

Ancora una volta, fra gli unici tre sopravvissuti c’è una donna, Sarah (Lori Cardille), che lotta strenuamente in più di un’occasione per sopravvivere agli zombie contro i quali degli uomini l’hanno messa a combattere, certi che avrebbe avuto la peggio.

In Italia il film uscì nell’aprile del 1986, quasi un anno dopo l’arrivo nelle sale USA, e venne vietato ai minori di 14 anni. Il precedente Zombi in Italia era stato vietato ai minori di 18 anni.

I produttori imposero a Romero il taglio di alcune fra le scene più cruente perché puntavano a una restrizione limitata ai minori di 17 anni non accompagnati. In cambio, gli offrirono un cospicuo aumento di budget. Ma il regista, che aveva un’idea ben precisa del film che voleva realizzare, rifiutò i soldi e proseguì per la sua strada, ottenendo una certificazione vietata ai minori di 17 anni in ogni caso.

Monkey Shines - Esperimento nel terrore (1988)

Sceneggiatura: George A. Romero (dal romanzo di Michael Stewart)
Durata: 113’

Si ritorna ai fiaschi al botteghino: il film tratto dall’omonimo romanzo di Stewart, costa 7 milioni di dollari e ne incassa poco più di 5 negli USA.

Le sorti si risolleveranno anni dopo, con l’uscita del film in home video e l’intervenuto apprezzamento della critica, che (con un certo ritardo) comprese il valore simbolico del film.

Divenuto tetraplegico in seguito a un grave incidente, il giovane Allan Mann (Jason Beghe) riceve in regalo una scimmia ammaestrata, che lo aiuta in alcuni compiti che non riesce più a svolgere da solo.

Ma la scimmia viene da un laboratorio in cui vengono condotti test per sviluppare l’intelligenza dei primati e le è stato iniettato un composto ricavato da cellule cerebrali di provenienza umana.

Presto Allan si accorge che la scimmia è speciale e instaura con lei un fortissimo legame mentale. La situazione degenera quando l’animale inizia a uscire e a uccidere, e Allan si accorge di essere il “mandante” degli omicidi, che ordina alla creatura di compiere per suo conto.

Il legame che nasce fra Allan e la scimmia gli permette, con gli occhi della mente, di tornare a correre fra gli alberi. Diventa autonomo, è di nuovo in grado di assaporare la corsa, l’aria fresca, il brivido della notte.

La sua condizione, una prigione fisica, si trasforma nell’opportunità di esplorare la libertà con la mente. Romero ci dice che i disabili non sono persone “finite”: hanno dentro di sé desideri, sogni, obiettivi da realizzare.

Allan li concretizza in cruenti omicidi perché riversa la rabbia e la frustrazione di essere trattato come un “morto” (vivente) solo per il fatto di trovarsi su una sedia a rotelle.

Due occhi diabolici (1990)

Sceneggiatura: Dario Argento e George Romero
Durata: 120’

Un clamoroso flop. E ve lo dice una che fu fra i pochi ad andare a vederlo al cinema, nel gennaio del 1990 in Italia.

Quasi 9 milioni di dollari spesi per realizzarlo, meno di 350.000 incassati ai botteghini USA. Un disastro.

Composto da due segmenti, uno diretto da Romero e l’altro dal suo vecchio e caro amico Argento, il film è ispirato ai racconti di Edgar Allan Poe: Il gatto nero (adattato da Argento) e Fatti nella vita del signor Valdemar (Romero).

Nettamente superiore a quello di Argento, l’episodio di Romero è l’ennesima variazione a tema “non morto”: il signor Valdemar, ridotto in stato di ipnosi a fini ereditari mentre la giovane moglie e il medico curante complottano per eliminarlo, rimane intrappolato nel suo corpo. Né vivo, né morto. Né cosciente, né incosciente. Riesce a influenzare gli eventi esterni, vendicandosi della traditrice. E la violenza sugli “umani”, nelle immagini del film, è sempre più tollerabile di quella riservata ai poveri gatti dell’altra storia.

Alcuni critici hanno ritenuto il lavoro di Romero troppo “televisivo” e claustrofobico, apprezzando maggiormente l’opera di Argento. Per quanto mi riguarda, la claustrofobia è esattamente ciò che dovrebbe trasmettere la storia di un uomo manipolato e intrappolato nel proprio corpo.

Il cast è ricco di volti noti, da Hervey Keitel ad Adrienne Barbeau, da John Amos a E.G. Marshall, da Julie Benz (all’epoca al suo debutto) a Tom Atkins. Senza dimenticare mai l’immancabile Tom Savini.

Uno dei limiti dell’edizione italiana fu la scelta di far doppiare diversi personaggi femminili ad Asia Argento, la figlia di Dario. 

La colonna sonora è di Pino Donaggio, il supervisore degli effetti speciali ovviamente è Savini.

La metà oscura (1993)

Sceneggiatura: George A. Romero (dall’omonimo romanzo di Stephen King)
Durata: 122

Continua la maledizione del botteghino, stavolta davvero immeritata.

15 milioni spesi, meno di 10 incassati negli USA. Romero adatta con grande sensibilità il romanzo di King sulla storia di Thad Beaumont (Timothy Hutton), scrittore che pubblica sotto lo pseudonimo di George Stark e viene ricattato da qualcuno che conosce il suo segreto: da bambino, Thad venne operato per la rimozione di quello che sembrava essere un tumore al cervello, ma era in realtà il suo gemello assorbito e mai completamente sviluppato.

Il classico tema del doppio viene esplorato con maestria da Romero, che coglie gli elementi vincenti del romanzo di Stephen King.

Il quale, subito dopo aver scritto La metà oscura, entrò in riabilitazione e smise definitivamente di bere.

L’evidente metafora dell’alcol come gemello malvagio, che prende il controllo delle azioni e trasforma la personalità, facendolo poi dimenticare, non venne colta dal pubblico - e ci sta - ma nemmeno dalla critica.

La stessa critica che aveva elogiato il romanzo distrusse il film, nonostante i richiami autobiografici allo pseudonimo di King, Richard Bachman. E nonostante la massima fedeltà dell’adattamento.

Certo: ci fu un grosso, enorme problema. Quando il film finì, Orion Pictures dichiarò il fallimento. La distribuzione venne rimandata di oltre due anni e Romero non ebbe il controllo sul montaggio definitivo. Non condivise l’esito dei tagli e dichiarò pubblicamente di essere stato escluso dal controllo autoriale sul film, che in effetti venne trasformato in un’opera più commerciale (ma senza alcuno scopo, come dimostrarono poi gli incassi).

Il problema maggiore sul set, invece, si ebbe con l’incapacità di capirsi fra Romero e Hutton, il protagonista. Il regista dichiarò che all’epoca era stato davvero molto difficile lavorare con l’attore e Hutton fu più volte sul punto di mollare il film duramente la lavorazione.

Bruiser - La vendetta non ha volto (2000)

Sceneggiatura: George A. Romero
Durata: 99’

Bruiser è il nome della rivista per la quale lavora il protagonista, Henry Creedlow (Jason Flemyng), uomo che conduce una vita tranquilla e monotona. Quando gli capita di ascoltare in diretta radio il suicidio di un uomo, inizia a riflettere sulla propria esistenza.

Il capo lo tratta male, la moglie lo tradisce, il suo migliore amico lo truffa e perfino il suo cane non lo sopporta.

Una mattina, Henry si sveglia e non ha più un volto: al suo posto c’è una maschera bianca anonima. In una trasformazione kafkiana, Henry è diventato fisicamente il signor Anonimo Nessuno che tutti maltrattano.

Sarà l’occasione per compiere la sua vendetta contro tutti coloro che si sono approfittati di lui.

Romero torna alla regia dopo ben 7 anni di pausa, e dopo la brutta esperienza con Orion.

Passa il tempo ma le cose non cambiano: il suo nuovo grido contro l’omologazione e la perdita d’identità, già lanciato tramite gli zombie movie, non viene ascoltato.

Il film ottiene recensioni tiepide, quando va bene, nonostante il climax della tensione che cresce, fino alla vendetta finale che dà una certa soddisfazione sia al protagonista che allo spettatore.

La terra dei morti viventi (2005)

Sceneggiatura: George A. Romero
Durata: 93’ (97’ per la Director’s Cut)

George Romero torna a giocare in casa, con un nuovo zombie movie in cui, per la prima volta, i morti viventi si coordinano guidati dal personaggio del benzinaio Big Daddy (Eugene Clark), a capo di un’orda vendicativa contro gli avidi umani (magistralmente rappresentati da Dennis Hopper).

Il ruolo di Slack, la donna tosta di turno ad affrontare gli zombie, come vi avevo già anticipato nell’introduzione viene affidata alla figlia del grande amico di Romero. Ma Asia Argento non ha il talento necessario per rendere Slack credibile, e questo diventa il problema principale del film.

Tutto il resto - dalla splendida “camminata subacquea” degli zombi al blindato super-attrezzato - funziona per mostrarci un altro aspetto della nostra vita che Romero vuole demonizzare attraverso una nuova storia zombie: la cupidigia.

Mentre il mondo è invaso dagli zombie, i ricchi si rifugiano in appartamenti esclusivi, in un bunker a prova di morto vivente che risulta essere inaffondabile quanto il Titanic.

Il denaro fa la differenza fra la vita e la morte, sia dietro le lussuose vetrate del Fiddler’s Green che nei sobborghi in cui si muore di fame, perché i soldi dei potenti arrivano a corrompere anche lì, determinando gli equilibri.

Un grande John Leguizamo si unisce a Simon Baker e al resto del cast per mettere in mostra come i forti riescano sempre a sopraffare i deboli… Fino a quando gli zombie, come in tutte le precedenti occasioni, tornano a riportare l’equità sociale.

Tom Savini riprende il personaggio del motociclista ucciso in Zombi - stavolta in versione morto vivente - mentre compaiono in cameo Greg Nicotero, ma soprattutto i due protagonisti e creatori della parodia Shaun of the Dead (L’alba dei morti dementi): Simon Pegg ed Edgar Wright, grandissimi fan di Romero invitati sul set dal regista, che aveva apprezzato il loro film (divenuto subito un cult movie).

In un piccolo ruolo, quello della soldatessa che spara allo zombie vicino alla recinzione elettrificata, recita anche la figlia di Romero. 

Questo è il primo zombie movie in cui Romero fa uso di effetti speciali digitali.

Originariamente era intitolato Deadly Reckoning, nome poi attribuito al blindato corazzato.

La storia è stata tratta da eventi contenuti nella prima stesura della sceneggiatura de Il giorno degli zombie. 

Il budget è di 15 milioni di dollari, gli incassi ai botteghini di 26.

Le cronache dei morti viventi (2007)

Sceneggiatura: George A. Romero
Durata: 95’

Il successivo capitolo della saga sugli zombi scritta e diretta da Romero non ottiene il successo di pubblico sperato.

Costato intorno ai 2 milioni di dollari, il film ne incassa 5 in tutto il mondo.

Intitolato in originale Diary of the Dead, segna il ritorno di Romero al cinema indipendente che gli permette di girare con budget ragionevoli e soprattutto di avere l’ultima parola su ogni scena del film.

La trama è incentrata su Jason, uno studente del college di Pittsburgh che decide di girare un horror indipendente insieme ad alcuni amici e a un suo professore.

Durante le riprese del loro film, i ragazzi apprendono dalla radio che il Paese è scosso da episodi di immotivata e inspiegabile violenza. Due membri della troupe se ne vanno, ma Jason convince gli altri a restare e a trasformare il girato in un documentario realistico - senza filtri dei media - di ciò che sta succedendo.

Si troveranno al centro degli scontri, circondati dagli zombi e in fuga verso un rifugio sicuro.

L’atto di denuncia, ripreso fedelmente attraverso le azioni che gli uomini compiono per sopravvivere, o per approfittarsi del caos scatenato dagli zombi, va dritto verso l’umanità.

Jason (Josh Close) non riuscirà a completare il suo film, ma qualcun altro lo farà per lui. E sarà, inutile dirvelo, una donna: Debra (Michelle Morgan), una fra i pochi sopravvissuti.

Le riprese montate ci mostreranno la crudeltà gratuita degli esseri umani, che perdono tempo a “giocare” con gli zombi anziché impiegarlo, per esempio, per offrire aiuto ad altre persone.

Girato in tre settimane, con la camera a spalla per simulare la verosimiglianza dello stile documentaristico, vanta numerosi, prestigiosi cameo. Tom Savini presta la voce a un annuncio radiofonico, Quentin Tarantino dà la sua a un giornalista insieme al grande Wes Craven, a Stephen King, a Simon Pegg e a Guillermo del Toro.

Dopo la guerra, l’omologazione, il consumismo e l’avidità, stavolta a essere nel mirino è la sopravvivenza stessa dell’uomo: siamo davvero meritevoli di continuare a esistere? O la piaga degli zombi è il segno di un’evoluzione necessaria, causata dalla nostra stessa inadeguatezza?

Survival of the Dead - L'isola dei sopravvissuti (2009)

Sceneggiatura: George A. Romero
Durata: 90’

Ci siamo: ecco l’ultimo zombie movie, il sesto in totale, realizzato dal padre del genere. E il peggior fiasco dal punto di vista commerciale: 4 milioni di dollari spesi, meno di 390.000 incassati. Ai botteghini di tutto il mondo (nei soli USA l’incasso è di 100.000 dollari, meno del budget de La notte dei morti viventi).

Romero scrive e dirige la storia dell’isola di Plum, al largo del Delaware, in cui l’antica faida fra le due famiglie locali più potenti - i Muldoon e gli O’Flynn - si sovrappone all’invasione degli zombie.

Patrick O’Flynn (Kenneth Welsh) è determinato a eliminare tutti i morti viventi che si trovano sull’isola, mentre Seamus Muldoon (Richard Fitzpatrick) vuole tenere al sicuro i suoi cari, trasformati in zombie, in attesa che si trovi una cura. 

Vi ricorda qualcosa? Magari un fienile e un certo Hershel Greene? Sappiate che i legami non finiscono qui: il cavallo che vediamo nel film è lo stesso usato nel pilot di #The Walking Dead.

La storia prosegue con la vittoria di Muldoon, che riesce a cacciare O’Flynn dall’isola ma non a impedirgli di diffondere un messaggio che invita i sopravvissuti a raggiungere Plum Island, diffondendo la falsa notizie che sull’isola non c’è nemmeno uno zombi, per farla invadere alla faccia del rivale. Naturalmente, finirà male per entrambi. Perché l’odio non porta a niente di buono, così come non l’ha mai fatto in passato.

Apertamente ispirato al film western di William Wyler: Il grande Paese, con Charlton Heston e Gregory Peck, Survival of the Dead ci dice senza mezzi termini che, quando il tuo “nemico” - e mi riferisco agli zombie, ma anche ai rivali - è impossibile da battere, l’unica soluzione è cercare la strada per una convivenza.

Riprendendo i tempi de Il giorno degli zombi, che per la prima volta mostrata il tentativo di addomesticare i morti viventi, Romero ci lascia con l’invito a riconoscere come ci sia sempre una soluzione, a patto di volerla trovare, che possa venire incontro alle esigenze di tutti.

Mentre il termine “zombie” viene usato ufficialmente per definire i morti viventi (prima era stato pronunciato una sola volta per sceneggiatura, sia in Zombi e La terra die morti viventi), il film è il primo del genere a entrare in concorso a Venezia e divide in due la critica ufficiale.

Chi sta con Romero riconosce il valore del messaggio e la genialità di mescolare western e zombie movie, mentre chi lo accusa di aver realizzato l’ennesimo film di zombie, ma senza la forza del messaggio politico, lamenta mancanza di originalità e di piglio creativo.

Questo è l’ultimo film di George Romero, che ha lavorato indipendentemente, ai margini del cinema mainstream.

E ci ha lasciato in eredità grandi film… Spesso incompresi, ma fortunatamente rivalutati nel tempo. 

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