Quando ci si approccia alla seconda stagione di Homecoming, non si può fare a meno di pensare di trovarsi in un mondo completamente diverso rispetto a quello conosciuto in precedenza. Sembrerebbe di essere di fronte a una storia nuova, il cui unico legame con la scorsa stagione sarebbe da rintracciarsi nei vuoti di memoria del personaggio interpretato da Janelle Monáe (il cui solo nome costituisce uno spoiler) e nel legame che la protagonista condivide con la Geist, l'azienda responsabile dell'iniziativa che dà il titolo alla serie.
La premessa della nuova stagione suggerisce l'introduzione di un nuovo mistero, ma ben presto, dal terzo episodio in poi, lo spettatore si ritrova nuovamente fagocitato nelle trame della Geist, solo da un punto di vista nuovo, diverso.
Durante la prima stagione avevamo scoperto insieme a Heidi Bergman (interpretata da una straordinaria Julia Roberts) che l'iniziativa Homecoming, ufficialmente volta a riabilitare ex soldati per favorire il loro nuovo ingresso nella società, altro non era che un programma sperimentale che aveva lo scopo di rispedire gli stessi soldati sul campo di battaglia eliminando, tramite una pericolosa sostanza, i ricordi traumatici legati alla guerra.
La prima stagione di Homecoming, diretta dal creatore di Mr. Robot Sam Esmail, si era conclusa con un faccia a faccia tra Colin Belfast (Bobby Cannavale), ideatore del progetto da cui prende il nome lo show, e Audrey Temple (Hong Chau), assistente e sottoposta di Colin alla Geist.
La seconda stagione si riaggancia al finale della prima e ci spiega come e perché Colin sia diventato il capro espiatorio della fallimentare iniziativa, i cui loschi segreti erano stati esposti da Heidi.
I nuovi sette episodi della serie servono non tanto a introdurre l'enigma del personaggio di Monáe, quanto piuttosto a fornirci risposte a domande che l'ambiguo finale della stagione precedente aveva volutamente lasciato irrisolte.
Viene quasi naturale domandarsi: sentivamo il bisogno di conoscere queste risposte? Sì e no. Se da un lato il finale della prima stagione era stato più che soddisfacente, soprattutto per chi aveva particolarmente apprezzato il profondo legame creatosi tra Heidi Bergman e l'ex soldato Walter Cruts (Stephan James), dall'altro la seconda stagione di Homecoming riesce a risultare una visione stimolante anche svelando numerosi segreti.
La ragione è molto semplice: mentre nei primi dieci episodi abbiamo guardato la storia dal punto di vista di Heidi, che cercava di aiutare Walter e il resto dei soldati sottoposti al programma, nella seconda la prospettiva è ribaltata e seguiamo la vicenda di chi cerca invece di seppellire le prove che condannerebbero l'Homecoming. Le protagoniste dei nuovi episodi sono questa volta antieroine, con le quale è difficile entrare in contatto ed empatizzare, ma che rendono proprio per questo la visione interessante.
Homecoming 2 segna quindi un punto di svolta per la serie: cambia il punto di vista, cambia la protagonista e cambia anche la regia. Dopo Sam Esmail, che ha diretto tutti gli episodi della prima stagione con evidenti omaggi al cinema di Hitchcock e alle oniriche atmosfere lynchiane, il testimone è passato a Kyle Patrick Alvarez, che per la maggior parte ha scelto di scartare gli elementi più eccentrici firmati da Esmail a favore di una regia meno audace.
Giunti al termine della seconda stagione di Homecoming non possiamo fare a meno di domandarci se nuove strade verranno esplorate in un'ipotetica terza stagione. Dopotutto, l'episodio conclusivo di Homecoming 2 lascia presagire che potremmo rivedere Walter e Heidi di nuovo insieme in futuro.
È una possibilità reale, soprattutto considerato che la serie, seppure resti un prodotto di nicchia, è un piccolo gioiello nel panorama televisivo degli ultimi anni, in particolare nella sua prima annata. E anche se l'ingresso nella realtà esplorata nella seconda stagione risulta inizialmente spiazzante, non possiamo negare di aver seguito con curiosità crescente anche i nuovi misteri narrati.
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