Come iniziare a ri(scoprire) Federico Fellini

I 100 anni di Federico Fellini da festeggiare nel corso del 2020 attraverso la riscoperta del suo cinema e dei suoi film.

Autore: Emanuele Zambon ,

Cos'è il genio, si chiedeva qualcuno nella commedia all'italiana? Nel cinema del belpaese, tramontata l'epoca dei grandissimi, non si è saputo più dare risposta al quesito. E allora, al netto di felici ma sporadiche intuizioni di epoca recente, non resta che crogiolarsi sulle spalle dei giganti del passato, figure ineguagliabili di un grembo eccezionale, immortale, che ha reso fertile l'Italia del grande schermo anni '40, '50, '60 come mai più da allora. 

Affermare che Federico Fellini - patchwork prezioso di quel grembo - fosse un genio è un esercizio pleonastico e nemmeno troppo originale. Visionario? Già detto. Trascendentale? Pure. Onirico? Come sopra. Che fosse un gran bugiardo - adorabile, s'intende - non è mai stato un mistero, lo ricorda in un video anche l'amico Alberto Sordi. Esiste qualità migliore per chiunque si cimenti con un atto di finzione qual è il cinema? La menzogna, si sa, richiede inventiva, fantasia, capacità di immedesimazione. Fefè, tra tutti, è stato il più sincero dei bugiardi. Ha messo a nudo il proprio io, scoprendo al pubblico le carte del privato (8 e 1/2), pescando dai ricordi (I vitelloni e Amarcord su tutti), sempre trasfigurati o reimmaginati, dividendosi tra corpi femminili generosi (tabaccaie, matrone) e amori indissolubili, come quello per la capitale italiana, omaggiata in Roma, o per il circo e i suoi personaggi, visti da vicino nel docu-film I clowns.

Fellini è stato tante cose, su tutte un grandissimo della regia nato cent'anni fa nella provincia emiliana, colui che più di tutti ha saputo cogliere l'universale nel particolare, viaggiando con l'immaginazione senza spostarsi davvero mai (specie dal suo set prediletto, il Teatro 5 di Cinecittà, a lui poi intitolato), ridefinendo linguaggi e stili narrativi tanto da meritarsi un aggettivo ("felliniano") conosciuto in tutto il mondo, qualificante un certo tipo di fare cinema, leggiadro e sognatore, deformante, macabro, surreale.

Diversamente da ciò che era solito ripetere, Fellini sapeva sì come dire le cose e ne ha avute assai da raccontare. Ha narrato, sempre in bilico tra fantastico e realtà, il passaggio da un'epoca ad un'altra, nuova e galoppante. Dalla fame e dalla miseria italiane, scorie della Grande Guerra, al boom economico, portatore di una nuova serie di (dis)valori. Sociologia applicata al cinema, innervata in sceneggiature - spesso scritte assieme agli altrettanto notevoli Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano - poco propense all'azione, al ritmo, interessate invece a tradurre in immagini un flusso di coscienza capace di riflettere turbamenti generazionali.

Per (ri)scoprire il regista riminese o approfondire ciò che è stato e che continua oggi a rappresentare basta osservare l'influenza che Fellini ha avuto su colleghi, presunti eredi, estimatori dichiarati, ma anche sulla società, sul costume. La sua è stata ed è tuttora una longa manus capace di attraversare trasversalmente il cinema. Incredibile ma vero, i drughi di Stanley Kubrick, sono, almeno in parte, la versione dark dei peter pan insoddisfatti di provincia protagonisti de I vitelloni (tant'è che una scena di Arancia meccanica cita in maniera esplicita il capolavoro felliniano). Le vicende di una star in declino, raccontate in quel bellissimo e artificioso piano sequenza qual è Birdman, rimandano a quelle del regista tormentato di 8 1/2. Ad esclusione dei casi in cui la strizzata d'occhio a Fellini ha rasentato il plagio (Stardust Memories di Woody Allen, tanto per citarne uno), reminiscenze del suo cinema sono rintracciabili un po' ovunque, merito a volte delle rimasticazioni dell'inconscio di cineasti e autori che, un po' come i gangster de I soliti sospetti, ignari di aver incontrato sulla propria strada Keyser Soze, hanno assimilato scene madri, soluzioni visive e poetiche felliniane senza - a volte - nemmeno accorgersene. C'è chi addirittura ha recuperato nella musica blues/pop - chissà quanto volontariamente - quelle straordinarie atmosfere intrise di nostalgia ("Diamante" di Zucchero evoca ricordi lontani in un tripudio di note e versi "amarcord").

Federico Fellini: il cinema come giostra della vita

Cineriz
Mastroianni nel finale de La dolce vita

Il cinema del regista italiano, cinque volte premio Oscar (di cui uno alla carriera), è sostanzialmente un cinema fantasmagorico, di grande impatto visivo, tendente ora alla meraviglia ora all'umoristico. Una grande festa affollata di personaggi strambi, condita da balletti e sberleffi, che una volta finita consegna l'uomo, un attimo prima perso tra sogni erotici e baldoria, ad un destino ineluttabile, fatto di vuoti e solitudine, che cela la più grande delle paure: la morte. Da qui la sacralità del ricordo, memoria di un tempo perduto rievocato con nostalgia e benevolenza, plasmato su cartapesta al chiuso del set. Ostia Antica che diventa uno dei borghi di Rimini, l'ex casinò Paradiso del mare di Anzio spacciato per il Grand Hotel, il maestoso transatlantico Rex - il suo passaggio in notturna, fra un nugolo di barchette in trepidante attesa, conserva ancora oggi la scintilla del leggendario - che altro non è che una maestosa scenografia, poi purtroppo demolita. Amarcord guida la schiera del ricordo ma è tutta la filmografia di Fellini ad esserne inebriata, quasi fosse un antidoto per scacciare la noia, il vero spauracchio di Fefè ("È la noia che ci invecchia a noi altri", esclama il padre di Marcello ne La dolce vita).

"Marcello come here!". Quelli di Fellini sono stati definiti eventi più che film. L'abbraccio da tela tra Anita Ekberg e Marcello Mastroianni sotto la fontana di Trevi, la sfarzosa cerimonia fascista (con il piazzale interno di Cinecittà a fare da stazione riminese) in Amarcord, il grande girotondo in bianco e nero di 8 1/2: affreschi più o meno corali che ritraggono momenti di vita reale, tormenti e giubilo di uomini di mezza età, semplici (mai per davvero) episodi di vita quotidiana. In agguato, l'ombra funerea del tragico, che sia una strage (La dolce vita), un tentativo di suicidio (Le notti di Cabiria), una rissa finita male (La strada).

Il cinema è dunque un'immensa giostra dove l'autore torna bambino. Il momento del gioco è però minacciato dagli spettri del tormento e dal timore di ciò che verrà dopo che le luci si saranno spente una volta per tutte, facendo calare il sipario su una festa a cui partecipano vagabondi del jet set, prostitute dal cuore d'oro, viscidi seduttori di provincia, registi in forte crisi d'ispirazione, metropoli in trasformazione, spiriti e tanti altri. Realizzare un film equivale quindi a giocare con creature partorite da dubbi, riflessioni e ricordi, tutti personalissimi ma trasfigurati ad arte. Un continuo gioco a nascondino con l'irrazionale e il suo contraltare, in bilico tra estasi e agitazione.

Appare chiaro che riscoprire Fellini (e il suo cinema) significa cercare di comprendere una personalità complessa, segnata da innumerevoli sfumature. Prima di tentare di capire fino in fondo i suoi film, è necessario pensare all'uomo dietro la macchina da presa. Fellini è stato una figura alquanto singolare: superstizioso oltre ogni immaginazione, con frequentazioni assai particolari (come quella del sensitivo Gustavo Rol, che gli sconsigliò di realizzare l'incompiuto Il viaggio di G. Mastorna con Paolo Villaggio a fare da protagonista), legato a Giulietta Masina per 50 anni esatti (morì il giorno dopo l'anniversario del loro matrimonio) eppure amante - per nulla segreto - di Sandra Milo per 17 anni, amato più all'estero che in Italia eppure irremovibile nella sua scelta di rimanere fedele al tricolore nonostante le avances di Hollywood, perso negli ultimi anni nell'ostinato tentativo di stare al passo coi tempi (racconta Carlo Verdone nella sua autobiografia "La casa sopra i Portici" di come Fellini fosse solito viaggiare di notte, fino all'alba, a bordo delle pattuglie della polizia solo per poter osservare una realtà romana by night sempre più sfuggente).

Il regista dei cent'anni ha raccontato l'incapacità dell'uomo moderno di afferrare il senso del tutto. Ne La dolce vita Marcello Mastroianni è una sorta di Dante moderno, smarrito nella selva romana tenuta a fatica dall'etica cristiana, proiettata verso un progresso algido, verso un consumismo sfrenato. Roma come una terra di mezzo sempre pronta a brindare ma dove aleggia lo spettro della morte (Steiner) o dove si spiaggiano oscuri presagi (il finale).

Da 8 1/2 a La città delle donne, il senso della vita è raffigurato per analogie, simboli, associazioni il cui fil rouge è l'inafferrabilità. La soluzione al senso di smarrimento va ricercata quindi nel sogno, nei ricordi d'infanzia, popolati da allegorie e stranezze capaci di rimodulare il reale, restituendogli il senso perduto in una società sempre più di massa. Si potrebbe parlare ancora a lungo del fenomeno felliniano, propiziatore di neologismi (da "dolcevita" ad "amarcord" fino a "paparazzo") e profeta della celluloide. Si rischierebbe però di limitare il suo genio ad etichette e aggettivi forse poco adatti a contenerlo del tutto.

Immagine di copertina usata con licenza CC BY-SA 3.0

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