I sacrifici dei padri ricadono sui figli, nel senso che i padri devono fisicamente sacrificare i figli.
È successo ad Abramo e Isacco, e succede anche a un chirurgo nordamericano con l’aria da bad boy di middle age, dietro gli steccati borghesi della sua villetta a suburbia.
È Il sacrificio del cervo sacro, film di Yorgos Lanthimos del 2017, che cattura lo spunto di Ifigenia in Aulide, tragedia di Euripide scritta tra il 407 e 406 avanti Cristo, una metamorfosi femminile (metaforica e reale, perché alla fine al posto della ragazza appariva un cervo) verso il sacrificio come l’atto supremo di bene nei confronti del proprio popolo, dei propri simili.
Per Lanthimos, invece, il cervo ha perso ogni allure mistica, il sacrificio è l’ineluttabilità del male e la salvezza non esiste, a meno che non sia intesa come un piegarsi alle leggi universali.
Il sacrificio del cervo sacro può lasciare sgomenti, attoniti, senza parole. Il parossismo di orrore e gli snodi imprevedibili di una trama contorta ma altrettanto chirurgicamente rifinita portano ad annaspare alla ricerca di un senso. Ma il senso, nel film di Lanthimos come nella vita, non c’è.
Trama
Il sacrificio del cervo sacro racconta la storia di Steven, uno stimato cardiochirurgo con una famiglia in mood Mulino Bianco. Inspiegabilmente l’uomo incontra un ragazzino, Martin, in una tavola calda, senza che riusciamo a capire, almeno inizialmente, quale legame ci sia tra i due.
La sera successiva, Steven racconta a sua moglie Anna, oculista, la storia del ragazzo: Martin ha perso suo padre anni prima per un incidente e Steven sta cercando di aiutarlo, anche provando a fargli sentire il calore della propria famiglia. Per questo lo invita a cena: Martin si presenta con dei fiori per Anna e sguardi speciali per Kim, la figlia maggiore della coppia.
Anche Steven andrà a casa di Martin a cena: il ragazzo vive in una casa modesta e la madre, dopo aver cucinato per tutti e tre, cercherà (senza successo) di sedurre Steven.
Dopo le ripetute pressioni del ragazzo affinché il medico abbia una storia con sua madre, il chirurgo si allontana e comincia a evitare le assillanti telefonate.
Sembra tutto risolto finché, un giorno, il figlio minore di Steven, Bob, non riesce più a muovere le gambe. Spaventati, i genitori lo portano immediatamente all’ospedale, in quanto il ragazzo sembra affetto da una grave patologia degenerativa. Le analisi e gli esami dimostrano il contrario: Bob non è malato, e forse i suoi sintomi sono dovuti a una reazione psicosomatica.
In realtà è Martin ad avere la spiegazione corretta: avendo Steven fatto morire suo padre durante l’intervento chirurgico dopo l’incidente, perché si era messo al lavoro dopo aver bevuto alcolici, il ragazzo ha deciso il modo in cui riequilibrare la giustizia. I membri della famiglia di Steven, progressivamente, inizieranno a stare male fino a morire. Le loro condizioni si evolveranno in tre fasi: paralisi, inedia e lacrime di sangue dagli occhi, l’ultimissimo segno prima del decesso.
È una sorta di maledizione lanciata da Martin alla famiglia di Steven, spezzabile in un solo modo: il medico dovrà decidere quale dei tre familiari sacrificare, salvando così gli altri.
Scioccato e sconvolto, Steven rifiuta questa spiegazione, prova a curare Bob e Kim (che nel frattempo ha sviluppato lo stesso malessere) in ospedale e a casa, rapisce Martin e lo picchia nel seminterrato, costringendolo ad annullare il tragico destino che ha disegnato per loro.
Martin, come un oracolo, è imperturbabile, sia rispetto alle minacce di Steven che alle lusinghe di Kim, che gli chiede di fuggire insieme.
Lacerato da un fato inaccettabile, costretto a vedere i propri figli stare sempre più male (e cercare, in modo anche subdolo, di salvarsi a discapito del fratello di sangue), mentre la moglie gli suggerisce di sacrificare uno dei ragazzi, prende l’assurda decisione finale.
Il finale e la spiegazione
Steven porta la propria famiglia nel seminterrato, lega e benda tutti e tre, moglie e figli, e comincia a sparare all’impazzata. Il primo e il secondo colpo vanno a vuoto, il terzo colpisce Bob al petto. Il bambino muore, la tragedia si rompe, il sacrificio è compiuto.
Qualche tempo dopo Steven, Anna e Kim si recano alla stessa tavola calda dell’inizio, dove incontrano Martin, che non distoglie lo sguardo da loro.
La spiegazione di questo epilogo orrendo e atroce, in realtà, è una non-spiegazione riassumibile con il dato di fatto del piegamento di Steven al volere superiore.
Nessuno può contraddire il volere degli dei. La colpa è ineluttabile ma, in quello che non è più un paese per vecchi, e tantomeno l’antica Grecia, la catarsi è ancora più dissacrata, quando prende la forma di un ragazzo che mangia inelegantemente un piatto di pasta.
Per questo motivo Lanthimos non scava nella tragedia, nelle sensazioni e nelle motivazioni dei suoi personaggi, adulti e bambini che guarda freddamente, con arroganza e onnipotenza, come un chirurgo che ha dei corpi sul tavolo operatorio. Preferisce trattare l’uomo come essere mediocre, meschino e fallimentare, in chiave universale, da raccontare nella sua totale assenza di libertà. Il suo protagonista è obbligato a una scelta/non-scelta - un po’ come in Lobster, alla fine, un altro Colin Farrell era chiamato alla stessa (non) scelta impossibile – che non porterà nessun esito salvifico, ma solo il nulla, un nulla mostruoso, nella forma di una cantina dei quartieri residenziali, dove risuonano, tra gli uccellini e il silenzio ovattato, gli spari della morte.
Ifigenia, dopo aver fatto di tutto per sottrarsi al proprio destino, accetta la morte come via d’uscita per cambiare il corso del vento e permettere alle barche greche di veleggiare verso Troia. Calcante era stato tranchant: non esisteva altro modo per arrivare alla vittoria.
Imparando a fidarsi di un ordine superiore, un disegno celestiale che non può essere impuro, Ifigenia si affida alla profezia e affida la propria vita agli dei, andando incontro alla morte con fiducia. Gli dei la salvano, accogliendola tra le proprie schiere come anima nobile e pura.
Gli dei di Lanthimos, invece, prendono la forma di un ragazzino arrogante e assillante, che seduce inspiegabilmente una coetanea.
Alla fine la maledizione si spezza, ma nessuno dei personaggi ne esce mitologicamente. Credere in un ordine superiore equivale a un cervo che cammina verso il macello, solo perché non esistono altri sentieri.
Non c’è niente che possa salvare l’uomo, neppure (tantomeno) l’amore.
Il sacrificio del cervo sacro è il film più folle, stralunato e violento di Lanthimos, che non riesce a imprimere la forza alla riscrittura del genere thriller-horror, come aveva fatto con The Lobster, come ha fatto con La favorita o con Dogtooth. L’alienazione è così esasperata da implodere in gocce di grottesco e assurdo.
Anche un regista, proprio come gli dei, può essere nonsense e ridurre i propri personaggi in poltiglia, una poltiglia da cui non emerge alcun cervo. I cervi sono fuggiti, rimangono solo le proprie ossessioni. E Lanthimos ne è il più consapevole.
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