Ci sono cineasti che ogni sera andando a dormire pensano "tutto qui?" rispetto alla loro carriera. Il giorno dopo si svegliano, bevono un caffè e si fanno bastare la loro filmografia, magari pregando ardentemente il loro Dio di concedergli nell'intera carriera almeno un film magistrale come Neruda o Jackie. Chissà se Pablo Larraín ci parla con Dio; di sicuro non ha bisogno di simili do ut des, dato che queste due pellicole eccezionali le ha presentate in un solo anno, il 2016.
Regista cileno di culto a cui ancora manca una vera e propria consacrazione (ma non il sostegno dei cinefili dallo sguardo internazionale o degli ambienti festivalieri) Pablo Larraín potrebbe aver persino venduto l'anima al diavolo, a giudicare dall'impressionante serie di pellicole che rasentano (o superano) il confine del capolavoro che ha tirato fuori in questi anni: prima No - I Giorni dell'Arcobaleno, poi El Club, nel 2016 il magistrale Neruda e infine Jackie, il suo esordio nel mondo di Hollywood.
Che a dirigere gli attimi più drammatici della first lady più iconica degli Stati Uniti non ci sia un regista americano è evidente sin dall'apertura: non c'è riverenza e non c'è retorica, non c'è nemmeno quella partecipazione emotiva che invece grondava da ogni stacco in Neruda, poeta vate in patria. L'effetto è stridente e quasi del tutto inedito e aggiunge una nota dissonante ripresa da ogni elemento del film: una cronologia vacillante e da ricostruire, una colonna sonora disturbante e allucinata, un formato in bilico tra il vintage e il claustrofobico. La storia la conosciamo tutti, perché tutti abbiamo visto le drammatiche immagini diventate storia: il completo rosa di Chanel macchiato di sangue, la guardia del corpo che balza sul cofano della macchina presidenziale, quel puntolino nero e rosa che rimane eretto e solo, abbracciando il corpo del marito. Sin dall'inizio Pablo Larraín ci nega proprio la familiarità di quelle immagini che sono entrate nel mito dei Kennedy, la famiglia pseudo reale d'America, che anzi quel mito l'hanno alimentato con una necessaria nota tragica: la fine di un mito, la fine di un'epoca.
Lo sceneggiatore Noah Oppenheim e Pablo Larraín sono quasi diabolici nel calcolare il peso specifico di Jackie in quelle cruciali ore tra la morte di JFK e la nascita del suo mito. La cornice è così classica da essere banale: una Jackie resa cinica e incattivita dal dolore delle settimane successive all'omicidio racconta a un giornalista la sua versione della storia. Sin da subito è chiaro che non vuole che il pubblico conosca la verità (concetto ingenuo e più volte demolito dai film di Pablo Larraín) o i suoi sentimenti, bensì una narrazione pensata apposta per alimentare il mito del marito.
L'incubo di Jackie non è la solitudine, le ristrettezze economiche o la perdita di senso della propria vita, non solo: al centro della sua rabbia e del suo dolore c'è la paura che il sogno del marito svanisca con la sua morte troppo precoce, lasciando un nulla di fatto dietro di sé, cadendo nel dimenticatoio. Quello di Jackie non è un lutto, è una battaglia. Questo splendido biopic non racconta né di una moglie né di una vedova, bensì di una stratega che comprende immediatamente che dalle sue decisioni su funerale, salma e corteo dipenderà la memoria a lungo termine del marito.
Prima della visione pensavo che in questa recensione mi sarei dilungata in un confronto con Neruda, ma i due film non potrebbero essere più diversi e in questo sta un altro elemento incredibile del lavoro del regista cileno: intervenire con due pellicole in uno dei generi cinematografici più vivaci a livello mondiale, farlo con due progetti completamente diverse per presupposti, storie, strutture e messaggi.
Qui il messaggio è molto, molto più simile a quello di No - I Giorni dell'Arcobaleno, brillante e raggelante analisi del peso che l'immagine pubblica e i media hanno sulla vita politica di un Paese, sul loro incredibile potere manipolatorio.
Fino a 5 minuti dalla fine, Jackie è un film più che fantastico. La chiusa però è assolutamente eccezionalmente, destabilizzante, di un cinismo da vertigine e imporrebbe un seconda visione, per rileggere ogni lacrima, ogni bicchiere di vino, ogni posa elegante di Jackie alla luce di quel finale inteso e disturbante.
Su Natalie Portman c'è poco da dire, perché rasenta la perfezione. Basta dire che con una resa fonetica impressionante riesce non solo a farci dimenticare di essere l'attrice immediatamente riconoscibile che è, creando una vera mimesi con il personaggio, ma anche a distrarci dal lavoro di Pablo Larraín. Al suo fianco poi c'è un cast alla sua altezza, il che è tutto dire. John Hurt se ne è andato consegnandoci un piccolo ruolo - quello del confessore di Jackie - decisamente non accessorio e memorabile.
Jackie sarà nelle sale a partire dal 23 febbraio 2017.
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