Non si può raccontare un uomo in due ore, se ne può al massimo suggerire un'impressione, spiega lo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz (Gary Oldman) al suo interlocutore. Una frase fatta che diventa una sfida, perché il più impressionante risultato di Mank è come comprima l'enorme complessità del protagonista in due ore e spicci di cinema, raccontandone conscio e incoscio, virtù e vizi, senza dimentircarsi il circolo di amici e nemici di cui si circonda.
David Fincher ci ha mentito, o quantomeno ha coperto bene le sue carte: Mank è ben più del racconto di come Herman J. Mankiewicz firmò la sceneggiatura di Quarto potere e della diatriba che ne seguì con Orson Welles sulla paternità dell'opera. È lo straordinario racconto di un uomo dallo stereotipo hollywoodiano fino alla sua nuda intimità, che si porta dietro una visione brutale di cosa alimentava e nascondeva la Hollywood degli anni '30, quando la Grande Depressione imperversava e la scritta sulla collina aveva ancora il "land" finale. La questione relativa allo scontro con Welles è così marginale che il buon ritratto che Tom Burke del regista (con un'ottima resa del suo distintivo timbro vocale) è poco più di una comparsa. Fincher abbraccia completamente la tesi della paternità di Mankiewicz sulla sceneggiatura di Quarto Potere, poi rivendicata con malizia da Welles. Non ci sono dubbi che gli estimatori del buon Orson avranno molto da dire in merito.
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Il punto del film però è un altro. La sfida impossibile che Fincher tenta di vincere è proprio quella di raccontare un uomo fino in fondo, nel suo genio e nel suo inconscio, in due ore. Tanto Mank da sceneggiatore scrive Quarto Potere insistendo sull'inconoscibilità del suo protagonista, tanto Mank da personaggio viene esplorato in maniera magistrale, con momenti di verità quasi disturbanti per lucidità.
I tre motivi per cui Mank è un film per pochi
Per farlo la pellicola è costretta ad almeno tre scelte che le costeranno una buona fetta del pubblico. La prima è quella di rinunciare a qualsiasi tentativo di semplificazione. Non solo si dà per scontata una conoscenza tutt'altro che superficiale della questione Quarto Potere, ma si affastella una serie di riferimenti storici, culturali e cinematografici che qua e là risultano soffocanti. Mank non è un film che si possa cogliere appieno in una sola visione: la quantità di informazioni e sensazioni che comprime in ogni scena è tale che si crea un attrito tra film e spettatore. Considerando il ritmo lento e l'incipit stereotipato (sceneggiatore col vizio del bere al lavoro su quello che sarà il suo capolavoro, con tanto di infermierina inglese al capezzale) sarebbe interessante analizzare la curva dell'abbandono progressivo degli spettatori secondo i dati di visione (ahimè segreti) di Netflix.
La seconda scelta penalizzante per il film è quella di non rinunciare a nulla. La sceneggiatura di Jack Fincher è diametralmente opposta a quella di Herman J. Mankiewicz. Per ritrarre Kane, l'alter ego fittizio di William Randolph Hearst, Mankiewicz lavorò per sottrazione, nonostante la sua sceneggiatura all'epoca venisse considerata troppo complessa, troppo lunga e intricata per poter poter funzionare. Il copione di Quarto Potere era più un'opera letteraria che un film per il grande pubblico. Quello di Jack Fincher a tratti risulta troppo metaletterario, finendo nella trappola che Mankievicz aveva deciso di evitare. Spiegare l'enorme complessità di un uomo significa doversi spiegare fino a rasentare la pedanteria, Fincher senior però non si arrende, vuole trovare la risposta alla domanda: perché Mankiewicz scrisse Quarto Potere?
Questo è il vero fulcro del film e lo sceneggiatore non rinuncia a nulla, non è disposto a semplificare niente. Tanto che nessun personaggio è semplice in Mank: persino l'infermierina inglese di Lily Collins o l'arguta Marion Davies di Amanda Seyfried (nella sua prova migliore di sempre) sono personaggi che rifiutano di essere sintetizzabili in una definizione. L'effetto però è intollerabile, quasi artificioso, perché per sua natura il cinema vive di semplificazioni e impressioni. Non tutti sono Gary Oldman, che tanto più il ruolo è istrionico tanto più ne esce vincitore. Fincher junior vuole la complessità del realtà nella sintesi formale del cinema e ciò che davvero impressione è che a tratti l'ha vinta persino sul reale. Merito anche delle facce e degli intepreti scelti da Fincher, anche solo per il carisma che si portano dietro. Giunti alla resa dei conti, al terzo atto che Mank promette a metà film sarà quello risolutivo, a Charles Dance basta uno sguardo per farci capire l'uomo che Quarto Potere tenta di ritrarre.
L'ultima scelta è squisitamente egoistica: Mank è un film personale, un'opera in cui David Fincher viene meno al suo approccio cerebrale. Anzi, Fincher se ne tira fuori completamente. Dopo aver passato gli ultimi 20 anni a costruire un modo di girare "a la Fincher", scompare letteralmente dentro il film. All'occhio allenato certe minuzie e certe complessità continueranno a suggerire la sua firma, ma il regista di Zodiac e Panic Room qui si attiene all'etichetta registica della Hollywood d'oro, rinunciando ai suoi distintivi movimenti di camera e a tutto ciò che lo ha reso il cineasta che è oggi. David Fincher si mette completamente a servizio della sceneggiatura scritta dal padre, non operando tagli o modifiche che renderebbero Mank un film molto più fruibile, probabilmente migliore.
Mank è un progetto che sognava di girare da anni e lo fa con rispetto assoluto del lavoro di un padre che in quel sceneggiatore geniale e alcolizzato, consapevole di aver perso l'occasione di scrivere il suo capolavoro, rivedeva sé stesso. È forse il film più sentimentale mai girato da Fincher, sicuramente il più irrazionale. Conoscendone la genesi è impossibile non vedere il ritratto del suo "vecchio", finire per speculare quanto un carattere di quel tipo abbia influito su chi è Fincher oggi, su quello che fa e gira. Mank è Fincher che cede il microfono al padre e ne regola il volume, mentre Jack racconta sé stesso. Il potere che Fincher ha acquisito viene usato per regalare - in maniera postuma - al padre l'occasione mai arrivata.
Mank non è il film migliore di Fincher, ma è difficile dire dove si posizioni nella sua produzione. Sarebbe semplicistico derubricarlo come cervellotico e ombelicale, se non ci fosse quel terzo atto che il caso ha voluto arrivasse nel 2020. Quando Mank affronta l'essenza di Hollywood, rivediamo in Jack la capacità analitica di incidere la realtà fino a tirarne fuori l'essenza più brutale. Quando il film esplora il rapporto tra politica e cinema, la funzione che la macchina dei sogni ha nell'influenzare la realtà statunitense, non siamo troppo lontani dalle conclusioni che traeva un film come No - i giorni dell'arcobaleno.
Mank è il ritratto di un uomo o di una nazione? La sceneggiatura originale di Quarto Potere s'intitolava L'americano, un titolo che calza a pennello anche a Mank. In qualsiasi altro anno, i passaggi più sulfurei di Mank sarebbero passati quasi inosservati, ma non in questo 2020 di elezioni statunitensi. Anche solo per quel terzo atto, vale la pena di resistere fino alla fine.
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