Due donne, quattro Oscar: perché Nomadland è il vincitore dell'edizione 2021 degli Oscar

Autore: Elisa Giudici ,

Che Nomadland avesse il potenziale per diventare un grande film lo si era capito sin dalla sua prima proiezione al Festival di Venezia (dove poi ha vinto il Leone d'Oro). Non è un caso se all'epoca (circa sette mesi fa) titolai la recensione dedicata "Sì, Nomadland sarà uno dei protagonisti della corsa all'Oscar". Considerata l'unicità dell'anno pandemico appena trascorso e i pochi rivali in grado di impensierire un film con alle spalle la forza promozionale di Disney, che Nomadland potesse portare a casa la statuetta di miglior film era già intuibile all'epoca. Seppur facilitato nella sua vittoria da alcuni fattori collaterali, la forza di Nomadland non può essere messa in discussione ed è tutta basata sul duo di donne che sta alla base del progetto. 

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Da una parte c'è la cineasta, montatrice e sceneggiatrice Chloé Zhao, la seconda donna di sempre in 93 anni di storia degli Oscar a vincere la statuetta come regista (la prima era stata Katryn Bigelow). Con un carriera indie alle spalle e un futuro in casa Marvel, Zhao ha realizzato un film in grado di presentarla al grande pubblico come un'autrice di livello. È riuscita nella non semplice impresa di venire assunta da Marvel come perfetta sconosciuta e diventare una vincitrice di Oscar ancor prima di arrivare in sala con il suo cinecomics.

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Zhao ha cambiato Nomadland e ne è stata a sua volta cambiata

Il taglio spirituale ed essenziale della pellicola, l'utilizzo di attori non professionisti (ovvero di nomadi nei panni di sé stessi, arrivati anche sul palco dell'Academy) in ruoli non cruciali, la comunione spirituale con la natura opposta al ritmo sfiancante della società umana e del lavoro. Questi temi sono il cardine della sua carriera, ma sono stati raffinati e resi ancor più immediati nella sua ultima prova, in una storia che la regista stessa dichiara averla fortemente cambiata

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ho capito che ho bisogno di poche cose per vivere. 

Zhao è dunque arrivata con un abito semplice, i capelli raccolti in due lunghe trecce sul palco dell'Academy, il trucco è appena accennato. Il ritratto della frugalità racconta del film, che sembra aver fatto sua. In un momento storico in cui il consumismo sfrenato alimenta una profonda crisi spirituale, Nomadland è un film capace d'intercettare un bisogno intimo di tante persone, soprattutto di tanti giovani.

La vittoria di Zhao è storica: donna, regista, di discendenza asiatica (il cognome è cinese). L'autrice però ha mancato il possibile poker di Oscar, vincendo ma non trionfando. I premi per il montaggio e per la sceneggiatura (da lei curati) sono andati rispettivamente ai concorrenti Sound of Metal e The Father.

Frances McDormand ha stravinto

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Chi invece ha stravinto è la compagna di viaggio, produttrice e protagonista Frances McDormand. Innanzitutto giova ricordare che Nomadland esiste grazie a lei. È la moglie di Joel Coen a leggere il libro inchiesta sui nomadi d'America di Jessica Bruger e ad acquisirne i diritti per trarne un film. È sempre lei ad avvicinare Zhao dopo essere rimasta impressionata dalla visione di The Rider (film che tematicamente e spiritualmente è un gemello di Nomadland) chiedendo alla giovane cineasta se volesse misurarsi con questa sfida. Le due si sono incontrate a Cannes nel 2017, giusto per ribadire l'importanza dei circuiti festivalieri. 

Frances McDormand è la prima donna a vincere sia nella vesti di produttirice sia in quelle di attrice. Nota (notoria?) per il suo atteggiamento mai timido e insofferente a celebrazioni e cerimoniali, non ha esitato a seguire Zhao e i suoi nomadi in giro per l'America, amalgamandosi alla perfezione ai loro personaggi e al loro stile di vita. Quello di Fern è un vincere facile, un ruolo molto simile a quelli passati che le hanno fruttato le sue due prime statuette. Sbagliando una concorrenza agguerritissima, l'attrice entra nel club ristretto dei pochi attori  che vantano tre Oscar per la recitazione. 

Searchlight
Frances McDormand e le nomadi che hanno partecipato al film
Frances McDormand ha saputo gestire splendidamente il rapporto umano e professionale con quasi non fanno gli attori di professione

Un traguardo importante, ma non il più memorabile. Frances McDormand qui si impone come produttrice intuitiva, sensibile, in grado di trovare la storia giusta, di far entrare nel progetto la persona più adatta a trasformarla in una sceneggiatura, organizzando un set a cavallo tra recitazione e documentario. In un mondo glamour e tutto apparenze come quello di Hollywood e degli Oscar, è riuscita a farsi strada senza utilizzare affettazione e l'attitudine da pubbliche relazioni di altri colleghi. La sua schiettezza l'ha resa temuta e ammirata, da anni. Questo Oscar da produttrice la affranca definitivamente dall'immagine di "moglie di Joel Cohen", che farà bene a mettersi al lavoro per non diventare a sua volta il marito di Frances McDormand. 

Nomadland è un vincitore frutto del compromesso

Non bisogna però tacere una scelta comprensibile ma criticabile del film: il fatto di avere dietro di sé una major come l'ex FOX Searchlight (ora Disney). L'accostamento di una dimensione filo documentaristica alla soppressione quasi totale degli argomenti politici e sociali affrontati con grande profondità del libro ha fatto alzare più di un sopracciglio. Soprattutto per quanto riguarda la collaborazione di Amazon e di altri giganti dell'economia per effettuare le riprese nei loro stabilimenti. Difficile credere che in cambio non abbiamo ottenuto (preteso?) un certo grado di supervisione sul prodotto finale. La conseguente immagine neutrale o solo lievemente negativa di questi lavori temporanei e massacranti che se ne ricava dimostra come Chloé Zhao e Frances McDormand siano molto più avvezze alle pubbliche relazioni di quanto lascino ad intendere. 

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Al posto di ricercare un'emozione forte o denunciare un conflitto, Nomadland lo diluisce nell'indole personale della protagonista, ci gira attorno, lo ignora. L'ultima moda dei Leoni d'Oro statunitensi (lo aveva fatto anche Joker) è quella di dichiararsi non politici. Gli spettatori e l'Academy hanno fame di emozioni forti personali, non di conflitti sociali scomodi. Vanno bene l'intolleranza e il razzismo, ma è meglio evitare il classismo e il privilegio insito nella ricchezza quando a sostenere il tuo progetto è una realtà come Searchlight.

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