Il 2018 è stato un anno davvero molto ricco di film incentrati sulla comunità afroamericana, con storie vere e fittizie che ne delineano l'inseparabile compagno di viaggio: il razzismo dei bianchi nei confronti dei neri, descritto da molti studiosi come uno degli elementi sociali ed economici fondativi degli stessi Stati Uniti d'America. Lo spettatore ha esplorato il dietro le quinte del KKK con Spike Lee, è disceso nel mondo del crimine con Widows di Steve McQueen, ha ascoltato la denuncia di Barry Jenkins contro le violenze della polizia ai danni dei neri nel sentimentale eppure durissimo Se la strada potesse parlare. Con Black Panther la politica e l'orgoglio nero hanno fatto finalmente capolino anche nel mondo dei supereroi Marvel.
Molti di questi film hanno così lasciato il segno da accaparrarsi una posizione di spicco anche agli Academy Awards 2019. Il 22 febbraio sono state rese note le nomination di quest'anno e ha colpito l'ottima performance di film come Black Panther e Green Book, appunto. Eppure il film di Peter Farrelly non è sempre ben accolto dalla comunità cinefila afroamericana, pur avendo incontrato il gusto dell'Academy.
Parlare di questo film significa in un certo senso parlare di rappresentazione e le cose si fanno complicate ed extra-cinematografiche, ma anche molto interessanti.
Green Book, la trama del film
Non era facile nell'America degli anni '60 essere un afroamericano. La discriminazione razziale era un fatto tangibile da cui era impossibile sfuggire, tanto che ogni nero che poteva permetterselo acquistava un'automobile. I mezzi pubblici - rigidamente divisi in posti a sedere per bianchi e per neri - erano fonte di pericolo costante per i non-caucasici, costretti spesso a subire insulti, minacce, talvolta aggressioni. Green Book ha la discreta pecca di non riservare grande attenzione all'oggetto che ne dà il titolo, un volume chiamato The Negro Motorist Green Book. Pubblicato annualmente da una casa editrice newyorkesev, il libro verde era una guida per gli afroamericani che volevano viaggiare; elencava tutti gli hotel, i motel, i ristoranti e le attrazioni turistiche in cui la presenza di afroamericani era gradita e accettata, dove i viaggiatori neri potevano considerarsi al sicuro.
Ad un primo impatto potrebbe sembrare l'ennesimo risvolto razzista degli Stati Uniti di allora, invece era un libro poco conosciuto al pubblico generale, ma popolarissimo e molto amato nella comunità afroamericana. Il libro verde era una risorsa imprescindibile per avventurarsi nel cuore dell'America razzista: gli Stati della Bible Belt. Proprio qui l'italoamericano Tony Lip (Viggo Mortensen) dovrà portare il celebre pianista Don Shirley (Mahershala Ali), guidando la sua automobile e garantendo la sua incolumità per tutta la durata del suo tour nazionale. Si tratta di un azzardo rischioso: pur essendo considerato un genio e un virtuoso, pur potendosi permettere la protezione necessaria grazie al suo ingente patrimonio, Don Shirley rimane un afroamericano, condizione sufficiente a metterlo in pericolo più si dirige a sud-ovest da New York, inoltrandosi negli Stati della confederati.
Green Book romanza il pericoloso viaggio che l'improbabile duo intraprese nel 1962. Italoamericano nel midollo, un po' truffaldino, rozzo e decisamente bravo a tirarsi fuori dai guai a suon di parole, l'ex buttafuori Tony Lip accetta l'incarico di scorrazzare un pianista nero per mera necessità economica. Col tempo però imparerà a capire cosa si nasconde dietro la maschera culturale e un po' affettata di Don Shirley: intelligente, coltissimo, raffinato eppure molto solitario. Estraniato totalmente dalla sua comunità ma desideroso di provare che per un musicista nero è possibile fare un tour anche negli stati della Bible Belt - per giunta suonando musica classica considerata "da bianchi" - l'uomo si rivelerà una figura ricca di contraddizioni, ma con una ferrea morale, forgiata a suon di umiliazioni passate e presenti.
Green Book, la recensione del film
Quello che stupisce di più del film di Peter Farrelly non è tanto quel che fa, ma le sensazioni che regala. Il viaggio di Tony alla scoperta degli Stati Uniti razzisti di fatto segue una parabola più che classica: diffidenza iniziale, contrasti, infine fiducia e arricchimento personale, fino a un cambiamento umano profondo e irreversibile per entrambi i protagonisti. Pur essendo molto convenzionale e talvolta sin troppo prudente, Green Book scivola via che è una meraviglia, risultando più godibile di quello che una sceneggiatura tanto tradizionale potrebbe promettere.
Il merito è dei due protagonisti, che catturano l'attenzione dello spettatore e donano profondità ai loro personaggi anche nei passaggi più banali. In questo senso Mahershala Ali ha la fortuna di trovarsi per le mani un personaggio che, pur descritto con grande convenzionalità, di dimostra ricco di potenziale. L'attore sa sfruttare alla perfezione questa occasione: il suo Don Shirley è un concentrato di sfaccettature che richiede tutto il film per essere davvero compreso e capito. Verrebbe da definirlo un uomo solo al mondo: sono numerosi i motivi che lo rendono un paria agli occhi della società (alcuni li scopriremo nelle fasi avanzate del film).
Sono due le forze contrastanti che ne innescano il moto: da una parte il profondo desiderio di spingere un po' più avanti i limiti di quello che un nero può fare, nonostante sia consapevole che la sua fama non gli garantirà di dormire in hotel puliti e sicuri, non lo metterà al riparo da uscite razziste umilianti persino dei padroni di casa che lo invitano a suonare nelle loro magioni. È un pianista eccezionale, certo, ma dovrà comunque usare il bagno all'aperto riservato ai neri. Dall'altra però la sua cultura lo rende a tratti sprezzante verso gli afroamericani, di cui commisera la povertà, l'ignoranza e la condizione. Il suo atteggiamento, il suo abbigliamento e il suo stile di vita sembrano quelli di un caucasico, risultando in una solitudine assoluta.
Al contrario Viggo Mortensen è molto bravo a rendere umano e profondo un concentrato di stereotipi da bar qual è il suo personaggio, che non manca di spuntare ogni punto della lista dei pregiudizi relativi a questa comunità in America. È curioso - mettiamola così - che un film che vuole denunciare il razzismo contro gli afroamericani lo faccia affidandosi a un'immagine tanto stereotipata dell'italoamericano medio: rozzo, poco acculturato, avido, mangione, tutto casa, moglie, figlioli e spaghetti.
È facile intuire dunque perché Green Book non sia considerato un campione della comunità afroamericana, che lo identifica come un film "bianco" sui neri, non solo perché il regista è caucasico. Rispetto a Se la strada potesse parlare, Green Book è molto accorto nel ricordarci che non tutti bianchi, non tutti i poliziotti sono razzisti e violenti (vedi pretestuosissima scena finale con l'agente della stradale), risultando veramente un po' opportunista. Personalmente però ritengo che ciò che qui viene molto smorzato nei film "neri" di quest'anno sia calcato con mano sin troppo pesante: l'equilibrio cinematografico perfetto sta da qualche parte in mezzo a questi due poli.
Green Book arriverà nelle sale italiane dal 31 gennaio 2019.
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