West Side Story, la recensione: Steven Spielberg evita l'effetto remake

Steven Spielberg corona il sogno di una vita dirigendo una nuova versione di uno dei musical più amati di sempre, sottraendosi al confronto con la versione del 1961 e rivelando nuovi punti di forza e debolezza di una storia senza tempo. La recensione.

Autore: Elisa Giudici ,

Fai attenzione a cosa sogni, verrebbe da dire a chi ha desiderato per una vita di realizzare un remake - pardon, un nuovo adattamento - di uno dei musical più amati e premiati della storia del cinema americano. Steven Spielberg però non è certo un giovane senza esperienza né non è mai stato uno sprovveduto. il suo West Side Story è innanzittutto una grande prova di forza nel confrontarsi rispetto a un classico stampato a fuoco nella memoria degli spettatori, trovando una nuova strada per riportare su schermo l'amore shakespeariano e immortale tra il gringo Tony e la portoricana Maria. 

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Quello di West Side Story è un regista che sa a chi rivolgersi (lo sceneggiatore e amico Tony Kushner) per poter realizzare un film che si regga sulle sue gambe, che non cerchi nemmeno il confronto con la pellicola del 1961, nemmeno per antitesi, anche se questa può essere l'impressione iniziale. Le scelte artistiche e stilistiche di Spielberg sono figlie ora della sua personalità di regista, ora dei sessant'anni trascorsi da quella pellicola e il modo di fare cinema contemporaneo. Il film di Spielberg infatti è da subito totalmente sganciato dall'immaginario visivo e dalle composizioni iconiche di quello di Jerome Robbins e Robert Wise.

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Questo West Side Story comincia con una lunga ripresa aerea che sfrutta una camera digitale, ovvero basata su almeno un paio di elementi che non erano tecnicamente immaginabili all'epoca. È anche girato in digitale, scelta che a livello cromatico è quanto di più lontano possibile dal vivo cromatismo della pellicola del 1961, in particolare dall'uso dei colori vibrante e simbolico che è proprio dei musical di quella decade a Hollywood (poi ripreso in film come La La Land).

Spielberg si libera dal confronto con il precedente adattamento

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Il West Side di Spielberg è desaturato, sporco, percorso da incessanti nuvole di polvere e da continui lens flare, in uno strano cerchio che sembra portare il maestro a citare l'allievo, Spielberg a usare un elemento visivo associato al cinema di J.J. Abrams. Non si tratta solo di una questione prettamente visiva e cromatica. L'approccio alla storia raccontata dal musical di Leonard Bernstein, Stephen Sondheim e Arthur Laurents nel 1961 oggi è più realistico e concreto. La violenza, il sangue, le morti e gli amori si consumano su schermo con una fluidità e un ritmo proprio delle regie di Spielberg, prendendo in prestito numeri di danza e linguaggi dai palcoscenici di Broadway, senza però la messa in scena altamente simbolica che era propria del film del 1961. In quel film i combattimenti erano elaborate coreografie che suggerivano i colpi inferti, così come lo stupro che si consuma ai danni di una delle protagoniste era suggerito tramite una complessa, drammatica sequenza di ballo.

Spielberg invece fa sanguinare i suoi protagonisti, fa urlare di disperazione le sue attrici, fa in modo che le mani e i volti siano sempre sporchi. La stessa orizzontalità pianeggiante dei set del film del 1961 viene abbandonata in favore di cumuli di sale e di macerie, in una città che sta cambiando forma e mira a cancellare Jets e Sharks, troppo occupati a odiarsi per vedere un altro potente nemico. Kushner scrivere per Spielberg una versione della storia in cui l'avanzata dei quartieri borghesi scatena una guerra tra poveri, cambiando la valenza dei due schieramenti. Gli Sharks sono i migranti appena arrivati che lottano contro l'assimilazione della loro identità da parte della cultura statunitense, mentre i Jets sono molto più sinistri e disperati rispetto a 60 anni fa: incarnano le retrovie dei padroni di casa, un miscuglio di disperazione e degrado con una tendenza all'autodistruzione propria di chi vede la propria identità rivoltarglisi contro. 

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Spielberg quindi vince la sfida del non farsi eclissare dal passato e dimostra ancora una volta quanto sia un regista incredibile. Si muove nel genere musical come un veterano, adattando le sue sorprendente capacità di architetto del movimento e dell'immagine a un genere codificato in maniera mai banale e molto personale, con risultati talvolta impressionanti (così come era accaduto con il suo approccio al mondo dell'animazione con il film su TinTin). Il film dura più di due ore e mezza ma scivola via con invidiabile agilità, scegliendo un approccio più snello sul lato musicale e uno politico su quello dei dialoghi, mantenuti in spagnolo senza sottotitoli anche nella versione italiana per specifica volontà del regista. 

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Tony e Maria rimangono intrappolati in una storia che li trascura

Come spesso accade a teatro e al cinema, sono i personaggi comprimari a svolgere la parte del leone. L'amore tra Tony e Maria è sempre stato il tallone d'Achille della storia e nel 2021 è forse il difetto più menomante della pellicola. Se il trasporto con cui i due giovanissimi arrivano in poche ore ad amarsi perdutamente e irrevocabilmente è figlio di un certo retaggio shakesperiano, il film dà loro così poco spazio e respiro da rendere sconcertanti e poco credibili alcune scelte di per sé forti che i due prendono (su tutte la scelta di Maria sul finale di far entrare nella sua stanza Tony dopo quanto successo). Non è semplice capire perché questa storia già per molti versi anacronistica negli anni '60 non venga modernizzata o quantomeno meglio spiegata, laddove per esempio la nuova identità di pugile di Bernardo o di piccolo gangster di Riff (due ottimi David Alvarez e Mike Faist) rendono i loro personaggi ben più complessi e contemporanei delle precedenti versioni. Lo stesso si può dire dell'energetica Anita di Ariana DeBose e del personaggio inedito di Valentina (Rita Moreno) a cui il film affida la canzone più iconica, sottraendola all'interazione dei due protagonisti. 

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Trascurati dalla sceneggiatura e con poco tempo a disposizione per spiegare i propri sentimenti in maniera efficace, Ansel Elgort e Rachel Zegler si ritrovano intrappolati in ruoli più che convenzionali, quasi retrogradi. Questo Tony ha una parte più oscura rispetto al passato, ma non trova nella sua Maria il giusto contraltare per far davvero funzionare (o fallire efficacemente) la sua supposta redenzione. Anche sul versante politico il film si apre facendo la voce grossa, ma poi balbetta. La gentrificazione che minaccia in protagonisti nei fatti rimane un pericolo sinistro e invisibile, senza personaggi agenti (o cantanti) a renderlo concreto. In un mondo in cui tutti sono vittime (anche e soprattutto i carnefici) un risvolto drammatico e costitutivo della geografia della città che si va a raccontare (che finalmente è riuscita a fare da set alla storia) finisce per diventare un mero pretesto. 

Commento

Voto di Cpop

70
Spielberg dirige con grande maestria il suo primo musical, non subisce il confronto con il film del 1961 ma trascura troppo l'interazione tra i due protagonisti putativi della storia.

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