I traumi di Unorthodox, tra la Brooklyn ultra-ortodossa e la nuova Berlino

Un video-saggio della scrittrice britannica Sophie Wilkinson analizza come la serie Netflix ispirata alla storia vera di Deborah Feldman affronta il trauma, da New York alla Berlino di oggi.

Autore: Alessandro Zoppo ,

"Quanto male è stato fatto a Brooklyn in nome di Dio?": è questa la domanda dolorosa che Leah, la madre di Esty, rivolge a Yanky in una delle scene più toccanti di Unorthodox, la mini-serie Netflix ispirata alla storia vera di Deborah Feldman e interpretata da una straordinaria Shira Haas.

Il concetto di trauma è ora al centro di un video-saggio, che potete vedere in apertura di questo articolo, a cura della scrittrice britannica Sophie Wilkinson, editorialista del Guardian e dell'Huffington Post.

Wilkinson fa partire la sua riflessione dalla definizione del sostantivo, ovvero un "grave shock emotivo causato da un'esperienza estremamente spiacevole". Il trauma è affrontato in modi differenti nelle due comunità nelle quali è ambientata la serie: quella chassidica Satmar di Williamsburg, a New York, un ambiente ebreo ultra-ortodosso dalle regole rigidissime; quella di Berlino tra i giovani del Conservatorio, in cui Esty "rinasce" trasformando la propria identità in un mondo libero e giovane.

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A Brooklyn "il trauma fa parte dell'identità", spiega Wilkinson: nella comunità Satmar prevalgono la separazione netta tra uomini e donne, la devozione estrema, il ricordo costante della sofferenza e l'ossessione per la purezza.

Le ferite dell'Olocausto sono ancora aperte e l'imperativo è evitare che un'altra Shoah si ripeta. Wilkinson cita Primo Levi, lo scrittore e poeta torinese sopravvissuto alla detenzione nei campi di sterminio, e un passaggio della raccolta di saggi L'asimmetria e la vita.

Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell'aria. La peste si è spenta, ma l'infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo.

I Satmar non hanno contatti con l'esterno: la comunità usa il trauma per "mettere in guardia" i membri dai "pericoli" del mondo che li circonda. Una scena in particolare riflette questo sentimento: il discorso del nonno di Esty quando la famiglia festeggia a tavola la Pasqua.

Quando ci siamo fidati dei nostri amici e dei nostri vicini, Dio ci ha punito. È dimenticando chi siamo che suscitiamo la collera divina.

Netflix
La famiglia di Esty a tavolta in una scena della mini-serie Unorthodox
La comunità esclude i

Il trauma non riguarda soltanto Esty: è transgenerazionale. Wilkinson fa riferimento all'epigenetica, la disciplina che studia le modificazioni "esterne" (l'età, i fattori ambientali o, appunto, gli eventi traumatici) che intervengono sulla struttura del DNA. Nel caso della ragazza, il trauma "modella" la sua identità. Esty deve avere un bambino a tutti i costi ed è divisa tra la procreazione per "ricostruire i sei milioni persi" nell'Olocausto ed il dolore provocato dai rapporti con il marito.

L'effetto domino è inarrestabile: nonni e genitori traumatizzati traumatizzano involontariamente i figli. La linea discendente arriva ad Esty, passando per l'instabilità psichica del papà Mordechai e le scelte controcorrente della mamma Leah. Senza dimenticare il "decadimento morale" del cugino Moshe, che ruba, beve e gioca d'azzardo.

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Diventata moglie, la giovane protagonista fatica ad accettare le regole e le restrizioni del perfetto matrimonio chassidico. La lettura del Talmud è proibita alle donne e Wilkinson esplora il concetto di Kavod Hatzibur, il principio della "Dignità della comunità": l'uguaglianza di genere divide ancora il mondo ebraico, come si legge sul Jerusalem Post.

Quando l'azione si sposta a Berlino, il trauma viene affrontato diversamente: "celebrando la gioia" di ciò che il Terzo Reich voleva cancellare. Le creatrici Anna Winger e Alexa Karolinski e la regista Maria Schrader dipingono la capitale tedesca, "epicentro della sofferenza" durante il nazionalsocialismo, come un'oasi di liberalismo e diversità, pluralismo e multireligiosità.

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Il riferimento è ai cosiddetti "anni d'oro" della Repubblica di Weimar, un laboratorio politico, sociale e artistico caratterizzato da una disinibita cultura gay e da una spiccata libertà sessuale, in realtà fatta propria successivamente anche dal regime nazista, secondo una tesi della storica e sessuologa tedesca Dagmar Herzog.

Wilkinson ritiene che gli spazi fisici di Berlino siano "esempi di come i luoghi superino i traumi": le prime volte di Esty dinanzi a due donne che si baciano e a ragazzi come lei che fanno il bagno al lago. Immergersi nell'acqua e galleggiare togliendo finalmente la parrucca rappresenta "l'opportunità di iniziare una nuova vita", mettendosi alle spalle il trauma e le regole ad esso legate.

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"La gioia – commenta la scrittrice britannica – è per loro uno strumento di commemorazione più utile della colpa". I nuovi amici di Esty, ovviamente, non sono immuni al trauma: sono scappati dalla guerra, hanno subito perdite devastanti, hanno dovuto nascondere la propria identità sessuale. I berlinesi di oggi convivono con esso e le loro reazioni sono profondamente diverse, come chiarisce l'israeliana Yael durante il viaggio in macchina verso la spiaggia.

Siamo troppo impegnati col presente per pensare al passato.

Se Yael ha usato la musica e la creatività per fuggire dalla leva obbligatoria ed esprimere sé stessa, Esty scopre ben presto che può fare lo stesso: liberare la propria identità, come accadrà con la commovente canzone Mi Bon Siach all'audizione al Conservatorio.

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"#Unorthodox – conclude Wilkinson – gestisce il trauma in modo affascinante e oculato. Nessuno è solo buono o solo cattivo, e c'è chi soffre a Berlino, così come c'è chi lotta a Brooklyn". Siete d'accordo con quest'analisi? Fatecelo sapere nei commenti!

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