Per essere un personaggio senza tempo della letteratura per ragazzi, Pinocchio sotto molti aspetti è parecchio datato. Risfogliando le pagine di Collodi si viene colpiti dalla forza inventiva delle immagini, che talvolta sfocia nel territorio della violenza e della crudeltà. Ad aver ispirato tanti registi prima di Garrone (e lo stesso Benigni) è la potenza iconica di un pezzo di legno che si anima e che prima di diventare carne sceglie la strada più difficile e dolorosa per conoscere il mondo e la verità. Pinocchio rifiuta la scuola, gli insegnamenti paterni, il buon senso degli adulti e le raccomandazioni degli esseri fatati che lo circondano, rivendicando per se il diritto di conoscere il mondo e le sue verità, anche quando il prezzo si rivela altissimo.
Queste immagini però Collodi le convoglia con uno stile e una lingua agra quanto lo strato sociale poverissimo in cui il burattino prende vita. Prendere una storia episodica, brulla, molto spesso punitiva nei confronti del suo protagonista e trasporla in un film fantastico di stampo commerciale nel 2019 non è un compito semplice. Tant’è che un premio Oscar come Guillermo Del Toro da anni tentenna tra la voglia di fare il suo Pinocchio e l’incertezza su come procedere.
Il sogno e la sfida di Garrone
Arrendendoci alla toscanissima evidenza che nel mondo culturale italiano l’influenza di Pinocchio e praticamente inesauribile (a volte a discapito di fonti letterarie più vicine all’interesse e alla sensibilità attuali), pochi nomi nostrani sembravano indicati quando quello di Matteo Garrone ad affrontare questa sfida. Regista autoriale amatissimo anche all’estero, capace di imporsi con autorevolezza in un contesto competitivo come il Festival di Cannes, girando un film divenuto poi un caposaldo a cui tutti fanno riferimento nel raccontare la criminalità italiana (Gomorra). Parlando di Pinocchio, occorre citate il suo Il racconto dei racconti, film fantastico sottovalutassimo ma per certi versi già cult, capace di restituire le atmosfere ambigue e pericolose delle fiabe raccolte da Basile nel 1600, che innervano poi tutta la tradizione successiva dei racconti europei e di mezzo mondo.
Se c’è un regista in grado di raccontare la dimensione fantastica non mediata e ingentilita di disneyana memoria, ma quella verace, adulta, potente di Collodi è proprio Garrone. Un regista che, parole sue, da anni sognava di metter mano a Pinocchio e che lo fa in un contesto per lui inedito: quello del cinema commerciale destinato al pubblico più che allargato del Natale, con famiglie e ragazzini al seguito. Tutto sembrava andare nella giusta direzione, invece Pinocchio è una delle più cocenti delusioni che il cinema italiano regala nel 2019. Un film inconcludente, un po’ polveroso, ma soprattutto incapace di donare una singola scena emozionante in tutta la sua durata.
La mia è una voce fuori dal coro, lo so. Per ora. Sarà interessante vedere come reagirà la critica internazionale quando Pinocchio verrà presentato al Festival di Berlino, lontano dall’influenza di una produzione imponente in Italia, dalla difficoltà di dire qualcosa di male su un Roberto Benigni nei panni strazianti di un Geppetto ridotto all’essenza assoluta: quella della povertà e quella dell’amore per il suo figlioletto di legno. Lo dirò io allora: dopo aver vestito di panni di Pinocchio, Benigni veste quelli di suo padre. Il problema è che non smette mai i suoi: è Benigni ancor prima che Geppetto, posto al centro della scena dalla sua riconoscibilità.
Come si è letto molto in giro sono decisamente più mimetici ed efficaci altri grandi del cinema italiano, nascosti dietro i costumi e le barbe degli adulti che aiutano o perseguitano Pinocchio. Il più lodato e con merito è Massimo Ceccherini, ottimo al fianco di Rocco Papaleo nei panni della Volpe. Tuttavia l’impressione è che siano tutti sottoutilizzati, i cattivi e i buoni, per un film sempre sulla soglia di fare qualcosa di davvero incisivo, ma mai capace di varcarla.
La forza sbiadita di un classico
Non è che a Garrone manchi il coraggio di osare, anzi. La scena degli assassini è presente, così come quella della piccola bara bianca. Eppure non sentiamo mai apprensione per le sorti del burattino, perché non c’è mai pericolo. La forza visiva del film è sbiadita, sciacquata da una sceneggiatura che mescola citazioni dirette del romanzo a frasi sbocconcellate che non attualizzano la lingua e non aiutano gli interpreti bambini, che non sono davvero all’altezza della sfida. L’unico ambito in cui il film è veramente vincente è quello tecnico: la prova di forza del comparto italiano degli effetti speciali qui è brillantemente superata. Tuttavia l’estetica stessa dei personaggi, la loro ibridazione con gli animali dal gusto démodé, si rifà alle tradizionali illustrazioni della storia di Collodi, con un effetto decisamente respingente.
La vera domanda è: a chi è rivolto questo film? Troppo educato e semplice per il pubblico a cui Garrone di solito si rivolge, troppo polveroso e privo di appeal per i più piccoli, troppo statico e neopauperista per gli spettatori occasionali, magari richiamati dal glamour italiano nel cast. Il film stesso per intenti e messaggi è poco definito, non aiutato da un ritmo inesistente e dall’incapacità di generare emozione e simpatia (nel senso letterale del termine) nello spettatore. L’assenza che fa più male però è quella di Garrone regista. Difficile se non impossibile qui scorgere il narratore per immagini preciso ed efficacissimo di Dogman, quello lirico e talvolta livido di Il racconto dei racconti e Gomorra.
Pinocchio arriverà nelle sale italiane il 19 dicembre 2019.
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