Se quando si tuona contro i giganti dello streaming che strangolano il circuito delle sale si parla sempre di Netflix, un motivo c'è e risulta evidente guardando The Report. Il film di Amazon arriverà nelle sale italiane per una tre giorni ben definita (dal 18 al 20 novembre 2019), per poi approdare poco dopo sulla piattaforma di streaming Prime Video, di proprietà del gigante dell'e-commerce. In queste stesse ore anche The Irishman di Martin Scorsese (un film prodotto da Netflix) sta passando nelle sale italiane, peraltro registrando una notevole presenza di pubblico e prolungando la sua permanenza al cinema, prima di arrivare sulla piattaforma della grande N il 27 novembre 2019.
Perché Netflix viene sempre additata come il nuovo che distrugge la tradizione cinematografica e Amazon, che tutto sommato ricorre agli stessi metodi, no? In The Report troviamo la risposta, così come in parecchie altre pellicola prodotte da Amazon, che è sempre molto accorta a non forzare la mano del sistema tradizionale, a rendere fluida la transizione tra sala e streaming. Non solo: quella di Amazon è una scelta molto più tradizionale anche come approccio, tematiche, aspirazioni. The Report infatti è in tutto e per tutto il film che uno studios - una major o una realtà indie - si premura di avere nel proprio catalogo nella stagione autunnale, stando a vedere se dall'Academy gradiscono lo sforzo.
Dato che "l'originale" Steven Soderbergh è già impegnato con Netflix, per cui ha diretto Panama Papers (che vi ho già recensito), Amazon ha pensato bene di rivolgersi al suo sceneggiatore di fiducia Scott Z. Burns, mettendolo alla regia di un film che per serietà e rigore riesce a far impallidire persino Il caso Spotlight.
Il rigore e la tortura
La storia vera che Scott Z. Burns porta su grande schermo non potrebbe essere più complessa e meno cinematografica di così: al centro della vicenda c'è un imponente documento di oltre 7 mila pagine che un giovane funzionario del Senato statunitense mette insieme spulciando anni e anni di email e corrispondenza privata della CIA. Il report riguarda il trattamento dei prigionieri sospettati di far parte di Al Qaeda, imprigionati in quattro siti in territorio straniero (uno dei quali è la famigerata prigione di Abu Ghraib). L'indagine del Senato prende il via nel 2003, quando arriva la notizia che la CIA ha distrutto una serie di filmati degli interrogatori condotti nei quattro "siti neri" di detenzione.
Non avendo più i filmati, l'unico modo per la commissione della senatrice Dianne Feinstein (un Annette Bening che pare accarezzi l'idea di una nomination come miglior attrice non protagonista) di appurare la verità e di ricostruirla attraverso i documenti e le email che la CIA è costretta a mettere a disposizione del Senato. Il pool investigativo conta di soli tre assistenti di senatori democratici, tra cui spicca Daniel Jones (Adam Driver). L'uomo, desideroso di entrare nel mondo politico statunitense facendo esperienza al fianco di Feinstein, finirà per dedicare quasi un decennio della sua vita all'indagine, chiuso nei sotterranei di un distaccamento segreto della CIA in Virginia.
The Report seguirà l'indagine di Jones, concentrandosi sia sul contenuto della stessa sia sul mondo politico statunitense con cui il lavoro di questa commissione si scontra drammaticamente più volte. Più che la denuncia vera e propria (già rilevata dallo scandalo di Abu Ghraib e da film come Zero Dark Thirty, che Burns non si fa remore a "dissare"), The Report s'impegna a creare un'affresco dell'ambiguità politica in cui questa ricerca di verità ha luogo. Il bersaglio non è tanto una CIA alla mercé d'inetti e ciarlatani, che lasciò che 119 sospetti venissero torturati senza cavarne una singola informazione utile. Il punto d'interesse e la sfumatura più riuscita del film è come le rielezioni e il pachiderma burocratico e democratico statunitense remino costantemente contro la verità e la catarsi degli errori passati.
Burns non è tenero né con la stessa senatrice Feinstein (che altrove sarebbe l'eroina senza macchina della vicenda), né con l'amministrazione Obama (su cui getta una lunga ombra), né con i giornalisti assetati di fughe di notizie. Non risparmia nemmeno il protagonista interpretato dal sempre ineccepibile Adam Driver, la cui devozione ortodossa all'inchiesta viene più volte incorniciata come cieca, sterile e poco pragmatica.
Duro sì, ma a che prezzo?
In un film tanto rigoroso, serio e senza sconti come The Report a venire messo alla prova è anche il pubblico. Se alcune soluzioni stilistiche (penso soprattutto alla cromia del film) richiamano nettamente l'ultimo Soderbergh, l'approccio non potrebbe essere più distante: tanto Panama Papers è accattivante, brillante e coinvolgente tanto The Report è freddo, rigoroso, respingente. La vicenda che narra è così complessa che non ci si può distrarre un attimo e, pur amando molto questo genere di complessi intrighi burocratici e politici, confesso di aver provato noia in più di un passaggio.
Alla fine il gioco vale la candela, perché quando The Report finisce di spiegare i suoi tanti dove, come, cosa e quando, tira fuori un ritratto crepuscolare e durissimo della fine della democrazia negli Stati Uniti, di cui la difficile pubblicazione di questo report è il sostanziale canto del cigno. Rimane però il dubbio che si sarebbe potuto alleggerire la forma, senza per questo svilire il contenuto. In chiave Oscar The Report si ritrova poi come cliente scomodo proprio Panama Papers, ma soprattutto Marriage Story, in cui la sua star Adam Driver dà una performance che conquisterà molto più facilmente il pubblico.
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Voto di Cpop
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