Luci al neon rischiarano giorno e notte una megalopoli asiatica in cui ologrammi pubblicitari di geishe e lottatori di sumo si stagliano nei ritagli di cielo tra un palazzo e l'altro. Sembra di stare nel futuro del 1982 di Blade Runner, invece è l'abbondante porzione di pigro retrofuturismo che ci propina Ghost in the Shell, remake del 2017 di un media franchise tra i più longevi, noti e acclamati dalla critica in Giappone.
Nella sua più alta incarnazione, quel film di Mamoru Oshii del 1995 spesso citato tra i migliori lungometraggi fantascientifici di sempre, Ghost in The Shell è diventato non solo una pietra miliare della riflessione filosofica e morale sulle intelligenze artificiali e sul grado di connessione tra corpo organico e anima, ma anche l'incarnazione stessa della malinconia biomeccanica imperante a Occidente e Oriente negli anni '90. Anche a livello visivo, molte delle soluzioni stilistiche create per descrivere il mondo degli shell (i corpi artificiali in cui vengono impiantanti i ghost, le anime umane) sono entrate a far parte dell'immaginario collettivo quando si parla dei cyborg: è avvenuto sia dalla fonte diretta sia da scopiazzature hollywoodiane non autorizzate, vedi alla voce gli enormi debiti mai davvero ripagati di Matrix.
Questo tardo remake statunitense non è di certo un terribile scempio nei confronti della fonte originale giapponese e purtroppo è già un traguardo in sé. Ghost in the Shell insomma può vantare un adattamento americano che non sia imbarazzante o che spinga i fan dell'anime originale a tentare di cancellare i ricordi della presa visione del remake. Rispetto a tentativi precedenti di portare con successo il mondo dei manga e degli anime nelle sale occidentali, Ghost in the Shell ha un budget e un rispetto per la fonte originale sufficiente a confezionare un film dalla copertina attraente, grazie soprattutto al design futuristico che impregna ogni costume e scenografia e al calco preciso di alcune delle sequenze più spettacolari del film animato (per esempio il combattimento con le tute mimetiche che rendono la protagonista invisibile al suo avversario mentre lo aggredisce in uno specchio d'acqua).
L’elogio delle avventure made in Usa del Maggiore, prima donna a venire impiantata con il proprio encefalo organico in un corpo completamente artificiale, purtroppo si deve fermare qui. Ghost in the Shell risulta essere un action nella media, grazie a effetti speciali gradevoli ma non rivoluzionari e grazie alla presenza sempre sinuosa e convincente di Scarlett Johansson: l’attrice ormai si muove tra combattimenti e rivelazioni sulla sua identità col malizia e agilità, mettendoci comunque del suo.
Il problema è che è l’unica a raggiungere quella quota di minimo impegno sindacale necessaria a tirar fuori un buon film. Se il risultato è apprezzabile lo si deve all’enorme complessità narrativa e ideologica della fonte, da cui sia sceneggiatura sia produzione attingono per lo più a livello visivo, rifugiandosi in una narrazione dall’intreccio consueto e banalissimo: soldato cyborg anaffettivo non ha memorie del suo passato, almeno fino a quando il nemico della multinazionale per cui lavora le rivela una scomoda, personale verità. Un po’ poco per un film che avrebbe dovuto ereditare il testimone di un lungometraggio fondativo dell’animazione giapponese moderna. Il confronto tra le due narrazioni è davvero imbarazzante. Un elemento destabilizzante ed emotivamente forte come l'hackeraggio della mente di un netturbino - uno dei climax emotivi e dei passaggi più potenti del film originale - diventa qui un interrogatorio di routine, che poco o nulla dà al mondo futurista dei ghost e dei loro shell, impegnato com’è a concentrarsi sulla vita privata del Maggiore nella solita parabola del soldato che riscopre la propria umanità.
Ghost in the Shell è insomma un action fantascientifico discreto, di quelli che nemmeno si scomodano ad aggiornare una visione del futuro ormai completamente scollegata dalla realtà: non siamo più a inizio anni ’80 e il Giappone non è più l’economia rampante che il resto del mondo teme diventi egemonica. Questo non significa che non possa rivelarsi una visione tutto sommato gradevole al cinema, ma il risultato migliore a cui può aspirare è farvi venir voglia di vedere il film del 1995, quello sì un piccolo, grande capolavoro.
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Voto di Cpop
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