Quando ogni recensione del tuo ultimo film comincia con il sottolineare la tua età anagrafica e si conclude parlando di testamento cinematografico, è davvero venuto il tempo di scendere a patti con sé stessi o passare il tempo a fare gli scongiuri del caso. D'altronde 88 anni non sono pochi neppure per un attore e regista inossidabile come Clint Eastwood, neppure a fronte di tanti riconoscimenti, premi, attestati di stima e progetti portati a conclusione. Appunto, viene da chiedersi: Cosa può spingere un uomo che dalla vita ha avuto tutto e a cui la vecchiaia non ha portato via nulla in termini di prestigio, uno rimasto in piedi anche dopo il ciclone scandalistico che ha spazzato via tanti colleghi nell'era del #MeToo a tornare dietro e davanti la cinepresa?
Era da parecchio che non succedeva e la risposta, come sempre, è: la storia perfetta. Nella fattispecie si parla di una sceneggiatura (in realtà utilizzata in tutta fretta da Eastwood dopo una prima stesura in parte solo abbozzata) di Nick Schenk, già autore di Gran Torino.
Il progetto prende il là dopo un incredibile articolo di una testata statunitense che rivela al mondo la storia di Earl Stone, arzillo florovivaista che ha passato da tempo gli 80 anni e che è riuscito a diventare uno dei più insospettabili, irriducibili, affidabili corrieri della droga per i cartelli messicani, trasportando quantitativi ingenti di stupefacenti da una parte all'altra del confine meridionale statunitense.
La trama del film
Earl Stone (Clint Eastwood) è un ex veterano della guerra di Corea che ha raggiunto la terza età senza mai fare concessioni al suo egoismo. Florovivaista di fama nazionale, è disposto a mancare al matrimonio della famiglia per andare a collezionare l'ennesimo premio a una delle sue piante da fiore, confermando il suo ruolo di grande assente tra le mura di casa. Un decennio più tardi, ampiamente superata la soglia degli 80 anni, Earl non può godersi la meritata vecchiaia: un colpo di sfortuna e la crisi economica riducono la sua attività botanica al fallimento, mentre le sue mancanze presentano il conto in campo familiare. Presentatosi senza più una casa dalla nipote, viene malamente scacciato dai parenti, che mai gli hanno perdonato la lontananza degli anni precedenti.
Proprio in questa occasione Earl viene avvicinato da un ragazzo d'etnia latina, che ha notato i tanti adesivi dei vari stati americani sul suo furgone. La promessa è quella di un lavoro sicuro e ben stipendiato; la richiesta è solo quella di guidare un furgone dal punto a al punto b, comunicato con un cellulare usa e getta.
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Earl scoprirà solo durante il suo primo incarico che la merce di contrabbando che sta portando da un garage di El Paso a un altrettanto losco ritrovo su territorio statunitense è droga purissima. Questa scoperta non lo fermerà dal continuare il rimunerativo lavoro, tentando di riavvicinarsi alla comunità e di fare ammenda presso la propria famiglia, anzi. Sfruttando l'aria rassicurante che l'età e la sua privilegiata appartenenza all'etnia bianca gli donano, scalerà rapidamente i ranghi del cartello, diventando uno dei più affidabili, infallibili "muli" dell'organizzazione. Earl diventa una sorta di celebrità, costretto a portarsi dietro un osservatore/assistente del cartello (a lui molto ostile). La sua fama è tale che finisce per attirare anche le attenzioni di un nucleo di agenti della DEA, a cui è giunta voce di un corriere della droga in grado di movimentare ingenti quantità di stupefacenti senza mai farsi beccare.
La recensione del film
Il fascino di The Mule tende a straripare ben al di fuori dei confini strettamente cinematografici della pellicola. Un giudizio che si limiti solo a questa riguarderebbe l'ennesima buona prova di Eastwood regista e attore nell'ennesima pellicola con cui racconta l'ingegno e l'orgoglio della sua generazione, lo sgomento provato nel rapporto con i più giovani e con le etnie non caucasiche. Il tutto è racchiuso nella solita cornice morale tanto rigorosa rispetto a certe linee guida spirituali statunitensi quanto anacronistica per come è restia ad attenersi al politicamente corretto. Sostanzialmente ancora una volta Eastwood rivendica il diritto di dire quello che vuole e di fare la morale a una certa gioventù.
C'era davvero bisogno di pronunciare la famigerata "parola che inizia con la n" nei confronti di due afroamericani mentre interpreta una sorta di Robin Hood che spinto da mera necessità economica finisce per trasformare il suo atto criminale in una riscossa etica presso la sua famiglia e un aiuto verso la sua comunità? Quasi certamente no, così come si poteva tranquillamente fare a meno di certi pistolotti (che bisogna ammettere risultano comunque divertenti) sui giovani e l'internet di oggi. Sta di fatto che Eastwood sembra farsi punto d'onore di rivendicare il suo diritto, o quantomeno il suo potere e la sua capacità di continuare a girare questo tipo di scene, dire questo genere di cose, anche nel 2019, con nessun intento iconoclasta o fortemente simbolico. Semplicemente perché può e vuole.
A fronte di una sceneggiatura talvolta abbozzata e di un film che segue la parabola dei suoi predecessori, cosa rende Il corriere - The Mule diverso, a tratti più pungente e acuto dei predecessori? La risposta è: Clint Eastwood. Non il regista, non l'attore, bensì l'uomo fallace dai matrimoni falliti e dai divorzi controversi, dai rapporti glaciali con i figli, per non parlare della prole "segreta", delle paternità riconosciute solo in tarda età. Conoscendo la biografia di Eastwood è impossibile non riverderlo mentre rilegge sé stesso negli errori di Earl Stone. In questo senso Il corriere - The Mule diventa una riflessione emblematica di un uomo che ancora a tarda età cerca di tracciare nell'ennesimo progetto un bilancio della sua vita, votata completamente al lavoro, dimentica degli affetti.
Il gioco è affascinante ma ha senso fino a un certo punto, perché questa lettura critica non solo del protagonista, ma di tutto il sistema criminale come patriarcale e fondato sul lavoro (tanto quanto il capitalismo legale statunitense) funziona solo se è lo spettatore a vederlo e volerlo. Non è solo Earl a riflettere nella carriera da florovivaista tutto il suo egoismo, ma lo fanno anche gli affiliati del cartello che ragionano sempre all'interno delle logiche criminali, fino ad arrivare all'ambizioso agente della DEA interpretato da Bradley Cooper.
Certo il film è molto pungente anche rispetto alle debolezze del protagonista. Non manca mai di fare dell'ironia a sue spese, in primis descrivendo la sua libido (soddisfatta in un paio di nottate bollenti a tre tra un carico di cocaina e l'altro), di sottolineare quanto il suo successo come "mulo" derivi dall'innato privilegio bianco, che gli consente di godere dell'assoluta fiducia di ogni poliziotto che incontra sulla sua strada. Se però questa riflessione avviene solo dentro al film e solo per chi è in grado di leggervi il sottotesto autobiografico, mentre al di fuori è visibile solo un 88enne bianco che continua a dire e fare quel che vuole sul set perché può, viene da chiedersi quale sia il vero valore dell'opera. Quanto The Mule è una sana autocritica in un testamento cinematografico, quanto un rimpianto per i propri errori trasformato in film e quanto l'equivalente di quei sorrisi da bravo anziano rispettoso della legge che Earl propina al poliziotto di turno, sapendo già di farla franca?
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Voto di Cpop
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