Un microcosmo di spiazzante vitalità, compresso in un’affollata cucina in cui vite spezzate cercano una nuova rotta per rimanere schiacciate da perdite emotive e sogni infranti. Si potrebbe condensare in queste poche, essenziali parole la natura di The Bear, serie di Starz e disponibile in Italia su Disney Plus, che ha mostrato come uno dei trend del momento, la passione del food, possa allontanarsi dalle atmosfere blasonate dell’alta ristorazione per avvicinarsi a una visione più quotidiana e familiare del cibo.
Non è un caso che la serie lasci la scintillante vitalità delle metropoli americane per eccellenza per spostarsi a Chicago, assieme a Detroit dimensione più operaia. Il creatore della serie, Chris Storer, è un figlio della Windy City trapiantato a Los Angeles, condizione che gli consente non solo di comprendere come raccontare a un estraneo la sua città natale, ma anche quali aspetti urbani e socioculturali privilegiare per dare concretezza alla sua creatura.
Da sempre teatro di serie e film che portano alla ribalta la lower-middle class americana, Chicago per sua natura si presta a esser uno sfondo più sporco e freddo rispetto alla scintillante New York o alle vivaci città della West Coast. Basterebbe ricordare Blues Brothers (se state pensando a una scatenata Aretha Franklyn, ci siamo capiti) o alla scelta di Nolan di portare il suo Batman tra le soffocanti geometrie urbane di Chicago per comprendere come la Città del Vento sia l’immagine di un’America più bassa, più concreta.
Tanto che difficilmente vediamo Chicago ritratta nel suo cuore più sfolgorante, il Loop, tendiamo sempre a venire guidati nei sobborghi periferici, nei quartieri popolari, che sono la vera essenza di questa metropoli.
The Bear 2: il futuro dei Carmy e del locale tra rinunce e ricerca di stimoli
E in questo ambiente non potevano che venire premiate le tavole calde, veri e propri ritrovi emotivi, isole salvifiche per una classe operaia che cerca cibo familiare, di conforto, a prezzi abbordabili. Non è un caso che proprio nella capitale dell’Illinois si veda una delle capitali americani della tradizione dei panini, lontana dalla massificazione delle catene di fast food, e ancorata a una cultura alimentare resa religione, in cui ricette e segreti sono considerati eredità familiari. Un'identità culturale specifica di Chicago, che anima una dimensione urbana sin troppo vivace.
Sono queste le radici narrative di The Bear, serie che con la sua prima stagione si è imposta come una delle proposte più interessanti del catalogo di Disney Plus. Il primo arco narrativo ci aveva presentato Carmy (Jeremy Allen White), cuoco stellato arrivato al vertice della sua professione che ritorna a Chicago alla morte del fratello Mickey (Jon Bernthal), titolare della tavola calda di famiglia. Un luogo che rappresenta non solo una parte della vita familiare di Carmy, ma anche un ecosistema sociale sui generis, in cui i dipendenti sono divenuti una vera e propria famiglia.
Alla morte di Mickey, a tenere unito questo microcosmo è stato Richie (Ebon Moss-Bachrach), amico fraterno di Mickey e Carmy, che si è fatto carico del compito di preservare le tradizioni del locale. Una resistenza all’accettazione della morte di Mickey, talmente viscerale da entrare in diretto contrasto con Carmy. Dopo essersi allontanato dalla famiglia, cercando di ritagliarsi una propria carriera nell’alta ristorazione, Carmy sente il peso di dover salvare la tavola calda di famiglia, lasciata in condizioni disastrose dal defunto Mickey.
A dare il passo emotivo a The Bear è il volere ritrarre con una sensibilità feroce il difficile percorso di accettazione della perdita, soprattutto se scaturita da un gesto inspiegabile come il suicidio. Non si tratta più solamente di elaborare un lutto, ma anche di convivere con la sensazione di non esser stati capaci di intercettare malesseri e sofferenze che hanno condotto alla tragedia, rendendolo una presenza costante nella quotidianità di coloro che erano vicini allo scomparso.
La vera cifra emotiva di The Bear è puntare a una prospettiva narrativa ricca ma mai soffocante, che va oltre le romanzate fascinazioni cui siamo abituati per raccontare vite sporche, spezzate, sempre sull’orlo del baratro ma ostinatamente ancora in piedi. L’ampia gamma di temi inseriti all’interno di questa vicenda non si esaurisce con la prima stagione, ma viene ulteriormente elaborata all’interno della seconda stagione, di cui abbiamo visto in anteprima i primi quattro episodi.
Il finale della prima stagione ci aveva lasciati con Carmy e compagni in condizione di poter salvare il locale, dandogli una nuova esistenza. I primi episodi della seconda stagione che abbiamo visto in anteprima, sono una diretta continuazione di questo momento, con una ricerca di una nuova identità per il The Bear, nome scelto per la riapertura, ma al contempo un percorso terapeutico per ciascuno.
La ristrutturazione del locale è un’allegoria della fragilità di chi vive quotidianamente questo ambiente fatiscente e rassegnato. Tanto il vecchio ristorante era caratterizzato da una patina di consunta esistenza, quanto i dipendenti che vi lavoravano mostravano una sorta di cinica rassegnazione, un ostinato, disperato attaccamento alla vecchia vita (il famigerato ‘sistema’) che rappresentava un’illusoria sicurezza. Non è un caso che la regia di The Bear privilegi un taglio compresso della scena, andando puntare l’occhio della telecamera sui volti dei personaggi incastonandoli in scorci perenni della cucina del ristorante, acuendo un senso di claustrofobica pressione.
The Bear, infatti, non mira a mostrare l’eccellenza della ristorazione, creando una sorta di epica della cucina di alto livello. Al contrario, il passato di Carmy, sagacemente contrapposto alle aspirazioni della giovane Sidney (Ayo Edebiri), viene visto come una ricerca ossessiva della perfezione, traslata in modo acido e tossico anche nella volontà di riadattare ai dettami di una brigata professionale un locale che rappresenta la vecchia concezione di conduzione familiare.
Non solo un cambio di metodologia, ma anche di idea di ristorazione, tanto che sin dall’inizio uno dei primi contrasti nasce dal voler rivoluzionare uno dei dogmi della tradizione culinaria locale, l’italian beef sandwich, in favore di piatti più elaborati e rivolti a palati più facoltosi.
Il mondo racchiuso in un diner
Su questo principio si è basata la prima stagione di The Bear, dominata da una pressione costante, ribadita da una colonna sonora utilizzata con chirurgica precisione e da un’impostazione registica che esalta la sensazione di esser costantemente sotto pressione. Il racconto visivo si fonda su giochi di camera che stringono sui gesti nervosi dietro la preparazione dei piatti, esaltando la passione per la cucina approssimandola a un amore ossessivo e famelico.
Un approccio stilistico preservato anche nelle rare scene in spazi più ampi, dove tutto viene sempre racchiuso in inquadrature ristrette e centrate sull’espressività dei personaggi, con un attento focus su dettagli mai banali ma centrali nel trasmettere la cifra emotiva della vicenda. Senza fronzoli, nessun virtuosismo, lo scopo è sempre portare su schermo l’essenza di questo piccolo mondo, un’apparente povertà stilistica che è invece perfetta rappresentazione della scarna e sofferta emotività dei protagonisti.
Al punto che i rari momenti di sollievo comico sembrano una nota asincrona di rara perfezione, uno stridente momento di salvifica normalità che ricorda allo spettatore come dietro questi personaggi forsennati ci siano mondi interiori che cercano di non crollare miseramente sotto il peso di delusioni e perdite.
Ogni dettaglio della storia mira a creare un ambiente cacofonico e prossimo al collasso, animato da contrapposizioni ideologiche ed emotive, animate da personaggi in contrasto con se stessi e con chi li circonda. Il vero motore della prima stagione di The Bear era la ricerca di un punto di contatto tra uomini e donne costretti alla convivenza in uno spazio soffocante, altare sacrificale di aspirazioni e monumento alle recriminazioni e alle sconfitte.
Se la prima stagione premiava una narrazione venata da sprazzi di cinica ironia, perfetta per non spostare mai l’attenzione dalla tensione perenne di queste vite, la nuova stagione sembra enfatizzare ulteriormente l’esigenza di una rinascita, che prende forma nel dare nuova vita alla tavola calda, ribattezzata nel finale della prima stagione The Bear. Un nuovo inizio per il locale che incarna anche la flebile speranza per Carmy e compagni di potere avviare una nuova fase della propria vita, che consenta loro, se non di realizzare i propri sogni, quantomeno di venire a patti con i demoni del passato.
Al centro della storia è anche il contatto con l’ambiente sociale che ruotava attorno alla precedente gestione, un’ancora emotiva per Richie e i dipendenti di Mickey, ma considerato sacrificabile per Carmy e Sidney. Non sono mancate aspre discussioni in tal senso, ma la radice comunitaria del place, della casa lontana da casa rimane inalterata in questa seconda stagione, dove la rinascita del locale non può esimersi dal preservare la tradizione familiare del locale. Una spinta narrativa che nella serialità vanta una lunga tradizione, da Happy Days a Beverly Hills 90210 a Friends, ma che con The Bear perde quella patina di idealizzazione romantica e diventa senso di appartenenza, elevando il place a rifugio nella tempesta. Tanto per gli avventori, quanto per i gestori.
Nell'anteprima della seconda stagione di The Bear abbiamo potuto apprezzare la continuità non solo narrativa ma stilistica della serie. La sincronicità tra ambiente e personaggi rimane uno dei tratti più appassionanti della serie, con un apprezzabile lavoro di transfer che emerge ad ogni passo della nuova stagione. I personaggi si sentono persi e senza un’identità? Ecco che sono costretti a creare il menù del nuovo The Bear, cercando ispirazioni e scavando nelle proprie ansie alla ricerca di ricette che siano parte del loro vissuto. Il locale cade a pezzi durante la ristrutturazione? La storia mette in evidenza come ci siano parti della vita dei protagonisti che faticano a sostenere il peso dell’esistenza, rendendo queste anime delle fortezze della solitudine dalle pareti sin troppo sottili.
Il secondo arco narrativo di The Bear è la conferma della bontà di questa serie, un’idea sostenuta da una personalità autoriale forte e consolidata sulla propria volontà di ritrarre questa compagine umana nella sua autenticità. Lo spettatore si affezione a questi personaggi perché con essi vive un’empatia sincera, rivede nelle loro difficoltà echi della sua quotidianità, per quanto romanzata, e partecipa delle loro sfide.
Merito di un cast che sembra in totale sintonia con i propri alter ego, tanto che in questa stagione possiamo notare una concreta ed evidente crescita di ogni personaggio. La prima stagione ha gettato i semi per le personalità di questa famiglia, ma con la seconda stagione vediamo ampliare quanto suggerito nel precedente arco narrativo. Non solo dando maggior spazio a figure precedentemente di supporto, ma offrendo l'occasione a volti familiari di definirsi ulteriormente, occasione presentata a Richie e Marcus (Lyonel Boyce), i cui interpreti hanno offerto una prova autoriale di tutto rispetto.
E se a fine giornata tutto sembra essere andato a rotoli, abbiamo la consolazione di poterci aggrappare a un italian beef di Carmy e sentirci tra simili.
Commento
Voto di Cpop
95Pro
- Valorizzazione emotiva dei personaggi impeccabile
- Trama mai scontata
- Colonna sonora utilizzata al meglio
Contro
- Fortemente radicato nella comunità di Chicago
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