The Dead Don't Hurt, recensione: l'anti-western di Viggo Mortensen è un film errante

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Autore: Paolo Falletta ,

Dopo aver esordito alla regia con Falling – Storia di un padre, Viggo Mortensen torna dietro la macchina da presa con il western crepuscolare The Dead Don't Hurt e lo fa curiosamente muovendosi in un paesaggio ancora molto selvaggio e molto fuorilegge con un personaggio lontanissimo dal conflittuale Willis della sua opera prima (con cui condivide una paternità difficile ma qui depurata da rancori), poi affidando al punto di vista femminile il racconto di una storia parallela che decostruisce le figure scorbutiche e virili che hanno segnato un genere ed ergendone una austera e incorruttibile che si staglia sul degrado del caro, vecchio far west. 

Di cosa parla The Dead Don’t Hurt? 

Guerra di secessione americana, tra Holger Olsen e Vivienne La Coudy, danese il primo, canadese la seconda, è colpo di fulmine. I due cercano la loro dimensione pacifica in una piccola casa ai margini di una località della California. Ma il nido perde il calore di un Olsen arruolatosi tra le file dell’Unione, e Vivienne deve rimboccarsi le maniche per sopperire alla mancanza dell’amato e combattere la sua personale guerra di logoramento in una comunità ostile in cui attira le attenzioni indesiderate del facinoroso Weston Jeffries. 

The Dead Don’t Hurt è l’epopea di chi rimane, di chi si tiene alla larga dall’azione ma continua a saggiare (e vivere) quel west che è selvaggio perché concepisce e contempla la prevaricazione come atto quotidiano, non necessariamente estemporaneo, insomma non legato a un duello che annichilisce e mette fine al gioco di potere, piuttosto ancorato a una spregevole attuazione della legge del più forte, di una violenza perpetua ed estirpata di ogni spettacolarizzazione.

E quindi ai nitriti di cavalli a galoppo, agli sguardi aguzzati di chi si contende la vita, alle mani nervose a tastare la fondina, Viggo Mortensen sostituisce equini al piccolo trotto, occhiate di complicità, palmi che compattano la terra, edificano una casa, poi una famiglia. E quando si torna a percuotere le porte a ventola dei saloon, a tracannare alcool, a imporsi con la forza bruta, The Dead Don’t Hurt dimostra, nell’uso e nella coscienza di genere, di poter ancora servirsi dei topoi come segni di riconoscibilità pur procedendo per i sentieri di una narrazione collaterale, di una desolazione tutta racchiusa nella solitudine come condizione universale piuttosto che nei tumbleweed che riempiono lo scenario. 

Un western svuotato dell'epos

È un allontanamento dall’epos molto rischioso, perché quella di Viggo Mortensen è una precisa volontà di dilatare i tempi e volgere l’attenzione sull’invisibile, sul controcampo domestico e muliebre dei racconti del fronte e dei vis a vis tra pistoleri.

The Dead Don’t Hurt rinuncia quasi del tutto ad alimentare il pathos in favore della messa in scena di una tranche de vie nel vecchio west che non dimentica il contesto e non può evitare di essere slice of "wild" life. E se da un lato Mortensen si cuce addosso un personaggio atipico, né giustiziere né esploratore, soldato e poi sceriffo che non seguiamo né in guerra né in offizio, mai burbero, anzi equilibrato, ragionevole, non istintivo, soprattutto non dedito al revolver; dall’altro, della Vivienne La Coudy col volto dolce e insieme solenne di Vicky Krieps, il regista esalta la fierezza, l’estrema dignità in dolore e in solitudine (e la mente va a un altro ritratto femminile profondamente pietoso e martirico, la Mollie Burkhart di Killers of the Flower Moon), ne rimarca un’indifferenza mai superba, piuttosto denotativa di una superiorità di pensiero e di spirito. 

D’altro canto, lo spregevole Weston Jeffries interpretato da Solly McLeod e il sindaco corrotto Rudolph Schiller (Danny Huston) costituiscono il residuo cristallizzato di un immaginario a cui Mortensen concede di riconoscere i propri archetipi un po’ per accentuare il contrasto con i suoi personaggi indisciplinati, anti-canonici, un po’ per assicurare un terzo atto che rientra nei ranghi della tradizione approntando un duello che del dualismo, dello scarto morale e comportamentale si nutre.

I morti non feriscono

È comunque un accenno, una resa dei conti depotenziata sia negli esiti sia nel suo svilupparsi, perché il regista sceglie di frammentarla - e dunque di prosciugarne la tensione in un avanzamento volutamente anti-climatico – facendo ricorso a quell’alternanza di linee temporali per cui The Dead Don’t Hurt opta in favore di una non-linearità che divide personaggi e narrazione.

Bisogna ammettere che si ha spesso l’impressione che l’espediente riveli una certa non-necessarietà, e immaginando un’evoluzione classica si fa fatica a credere che il film tragga effettivo giovamento da tale costruzione se non per un’alternanza delle vicende che significa simultaneità di presenza, continuità su schermo e dunque maggiore familiarità con i protagonisti (l’intervallo tra la partenza di Holger e il suo ritorno avrebbe forse procurato un distacco eccessivo dello spettatore con il personaggio). 

È un intreccio tra passato o presente (o tra presente e futuro) che in qualche modo contrappone e amalgama l’anti-western di Vivienne al quasi-western di un Holger cowboy errante che, con il piccolo al seguito (dinamica che sul lato chambara ricorda Lone Wolf and Cub), si inscrive nei confini di una revenge-story sempre accuratamente smorzata nei toni e nella tensione, anzi persino equivoca, perché quello intrapreso da padre e figlio è un viaggio di cui mai si disambigua la natura. Viggo Mortensen compie, insomma, tutta una serie di scelte sabotatrici ma controproducenti in termini di trasporto e di coinvolgimento.

Questo perché la fattura contemplativa e l’andamento flemmatico di The Dead Don’t Hurt finiscono per appiattire una meditazione che si consuma on-screen e mai nella mente dello spettatore, e perché proprio quell’indefinitezza costitutiva del pellegrinaggio di Holger ovatta il film dello stesso carattere erratico, e non riesce a sottrarlo da una tragicità in potenza che non trova espressione neppure nella rappresentazione della morte, perché se in The Dead Don’t Hurt i morti non soffrono e non feriscono, dovrebbero forse amareggiare per dar senso al sacrificio e a un cinema di genere che riscrive sé stesso riscoprendo l’ancillare. 

Commento

Voto di Cpop

65
Il film di Viggo Mortensen è il western di chi rimane, di chi rinuncia alla revolver per armarsi di pazienza e corazzarsi di dignità, per combattere la guerra di una quotidianità in cui violenza e prevaricazione invadono case e saloon. The Dead Don't Hurt procede per i sentieri di una narrazione collaterale che distoglie lo sguardo dall'azione virile che annichilisce per mettere in scena un tranche de vie di grande sensibilità ma privato dell'epos, poi allestisce una revenge-story sabotata nei ritmi e nei toni che consegna la riscrittura all'erranza del suo protagonista.

Pro

  • Un interessante processo di decostruzione del genere
  • Un punto di vista inedito
  • La prova di Vicky Krieps

Contro

  • Un'estrema dilatazione dei tempi
  • Una non-linearità mai davvero necessaria
  • Abbandonare l'epica significa sacrificare il pathos
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