The French Dispatch, recensione: il Wes Anderson antologico incanta a tratti

Autore: Elisa Giudici ,

Lo stile unico e immediatamente riconoscibile di Wes Anderson è al contempo il suo dono e la sua maledizione, tanto che alcuni lo considerano già precipitato da qualche film nel baratro di un manierismo tutto forma e poco contenuto rispetto alla prima parte della sua carriera. La verità la conosce solo Wes Anderson, ma l'impressione è che The French Dispatch voglia essere un film che, all'interno dei confini nettissimi dello stile e dei topoi che più lo aggradano, omaggia luoghi e professioni per cui nutre grande ammirazione. 

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Prima di arrivare sul set, Anderson ha chiesto al suo nutritissimo cast di stelle di riguardarsi un pugno di film francesi della Novelle vague: Godard, Truffault e dintorni. La pellicola infatti è un doppio omaggio: interamente ambientata nell'immaginaria Ennui-sur-Blasé, è stata in realtà girata ad Angoulême, una piccola cittadina francese nota anche per il suo Festival del fumetto. Le brevi sequenze animate nell'episodio poliziesco del film sono state realizzare proprio da uno studio d'animazione locale, quasi a voler includere in questa celebrazione del cinema d'Oltralpe anche la forte tradizione "animata" francese. 

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L'altro nucleo narrativo è quello dedicato al giornalismo. The French Dispatch è infatti una rivista che racconta attraverso raffinati reportage e articoli un po' radical chic la realtà di Ennui al mondo. Come spesso accade nel cinema di Wes Anderson, la redazione del giornale è un microcosmo da sogno, perfettamente oliato e armonico, retto da regole precise ("non piangere" e "fallo sembrare come se lo avessi scritto di proposito"), fotografato in un momento in cui nel presente non esiste più e se ne può solo rievocare il glorioso passato. 

The French Dispatch: gli episodi in e quelli out

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Girato in un bianco e nero che lascia spesso spazio al colore (o viceversa?) e in un formato che parte da un 1.37:1 per trasformarsi in alcune sequenze in un 2.39:1, il film fa della sua instabilità formale e tematica una sorta di bandiera. D'altronde si tratta di una serie di brevi storie (medio e cortometraggi) tenute insieme con efficacia dalla cornice giornalistica e da alcuni motivi ricorrenti che Anderson costruisce intorno alle stesse. 

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L'edificio che ospita la redazione del The French Dispatch
Il The French Dispatch è un microcosmo per aspetto e regole fortemente andersoniano

Date queste premesse, è comprensibile come alcuni passaggi siano più ispirati di altri: se il breve prologo con protagonista Owen Wilson in bicicletta e la conclusione dedicata al direttore Bill Murray lasciano un po' il tempo che trovano, a fare la parte del leone sono le due storie più lunghe, eleganti matriosche che contengono storie dentro storie. La migliore è quella introdotta da Tilda Swinton nei panni di una swintoniana critica d'arte che traccia il profilo biografico e artistico di un geniale pittore di nome Moses Rosenthaler, interpretato da un ottimo Benicio Del Toro.

Imprigionato per un duplice omicidio, Roses trasforma la guarda carceraria Simone (Léa Seydoux) nella sua musa e amante, non riuscendo però a essere completamente ricambiato nel suo sentimento. Fondendo umorismo nero e sentimentalismo, Anderson tira fuori una storia di amore, morte e galleristi assetati di fama e condannati per corruzione che forse avrebbe meritato ben altro spazio. 

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L'altro episodio di lunghezza consistente ha una struttura simile, con Jeffrey Wright nei panni di un ricercato critico gastronomico che, durante un programma televisivo, rievoca un articolo scritto per il The French Dispatch in cui raccontò la consumazione di una cena sorprendente (con rapimento) presso il commissariato di Ennui, celebre per la sua "cucina da poliziotti" realizzata da un rinomato chef del distretto. Sia questo episodio sia quello sessantottino con protagonista uno scapigliatissimo Timothée Chalamet nei panni di una sorta di Che Guevara adolescenziale hanno alcuni guizzi interessanti, ma sembrano non avere niente di davvero impattante da dire. 

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Il nutrito cast di The French Dispatch
Wes Anderson sembra incapace di separarsi da uno solo dei suoi attori feticcio, ma riesce ad utilizzarli al meglio

Risulta quasi superfluo accennare alla cura realizzativa del film, che però incide e non poco sulla percezione e il gradimento generale dello stesso. A differenza di altri cineasti che con l'età e l'esperienza puntano all'essenzialità, il cinema di Wes Anderson continua a stratificarsi e complicarsi, anche e soprattutto per quanto riguarda la costruzione dell'inquadratura e la disposizione degli oggetti e delle persone nello stesso. Chi scrive è riuscita a vedere il film due volte e in seconda visione la pellicola risulta decisamente più convincente. 

Wes Anderson sovrastimola lo spettatore

Prendiamo ad esempio la scena iniziale del film, in cui il cameriere del bar posto al piano terra dell'edificio che ospita la redazione di The French Dispatch prepara le bevande da servire a giornalisti e direttore durante la riunione in cui stanno pianificando il prossimo numero della rivista. Si tratta della sequenza di apertura, in cui tra voce fuori campo e scritte in sovrimpressione viene fornita una grandissima quantità d'informazioni preliminari allo spettatore, alcune delle quali cruciali per capire le successive fasi del film. Il tutto mentre sullo schermo si consuma una piccola, complessa mise en place delle bevande da servire sul vassoio. 

Il cinema di Wes Anderson quindi è sovrastimolante e beneficerebbe e molto del pulsante "pausa" del telecomando, per potersi fermare ogni tanto e respirare o fare il punto della situazione. Non è pensato per essere compreso e percepito nella sua interezza a una prima visione, almeno non nelle sue prove più recenti. Tuttavia rimane sempre un piacere perdersi nella sua marea di dettagli, anche quando accessori. 

Commento

Voto di Cpop

70
Wes Anderson incanta e delude con un film antologico dedicato alla Francia e al mondo del giornalismo: nei suoi momenti migliori però si fa perdonare quelli di stanca.

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