Il meglio e il peggio di Venezia 77: quali film vedere e quali evitare

Autore: Elisa Giudici ,

Tempo di Leone d'Oro, tempo di bilanci per la Mostra d'arte cinematografica di Venezia. L'edizione 77 si chiude come il successo organizzativo che è stato, più forte della paura e della pandemia. A livello qualitativo c'è un timido entusiasmo tra gli addetti ai lavori e critici in Laguna. Sono mancati i capolavori e i film imperdibili, ma la qualità del concorso non è stata così inferiore rispetto alle ultime edizioni e anzi: c'è chi ha saputo sorprendere in positivo e ci sono almeno un paio di titoli che ricorderemo negli anni a venire. 

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Non sono però mancati scivoloni nostrani e internazionali, in concorso e nelle sezioni collaterali. Rispetto ad altri anni l'impressione è ci siano stati pochi film che hanno messo d'accordo tutti con il loro flop, mentre la maggior parte dei titoli ha raccolto critiche variegate.

La Biennale di Venezia
Il poster di Venezia 77
Venezia 77 tra alti e bassi: ecco i film migliori e peggiori dell'edizione 2020

In attesa del loro arrivo in sala ecco i consigli di visione da Venezia 77: cosa vedere in sala o in streaming e cosa evitare a prescindere. 

I migliori

Nuevo Orden

Durissimo, lucidissimo, potentissimo: difficile descrivere questa distopia dannatamente realistica che scoppia per caso in Messico senza ricorrere a superlativi. Michel Franco ha dalla sua un'oggettività impressionante: se ne sta sempre un passo indietro rispetto a questa lotta tra ricchi e poveri, che racconta e riprendere con agghiacciante precisione. Fa paura perché è vero(simile). 

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Di certo non è per tutti. Violentissimo nei temi e nelle immagini, non lascia molta speranza per il futuro del tardo capitalismo. Il finale è una pugnalata al petto che difficilmente si dimenticherà. 

Mandibules

Il contraltare perfetto a Nuevo Orden: solare, caldo, capace di una certa cattiveria ma anche incredibilmente speranzoso nel raccontare l'amicizia tra due giovani spiantati e sciocchi che trovano una mosca gigante e tentano di allevarla. 

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Incredibile a dirsi per un film di Quentin Dupieux - maestro di nonsense e uscite artistoidi - è abbastanza accessibile al pubblico generalista. Stupenda la performance altamente comica di Adèle Exarchopoulos, incredibile e perfetto il finale. (la recensione)

Cari compagni 

Girato in 4:3 e in bianco e nero, sembra un residuato del cinema di regime dell'U.R.S.S., ma non bisogna lasciarsi ingannare dalle prime impressioni. Nella prima parte sembra quasi una satira caustica sull'inefficienza dello stato comunista e sulla nostalgia (vuota) per il compianto Stalin, ma cresce, cresce sempre più nel suo dramma diventando un affondo mortale a tutto quello che la Russia è stata dopo la Rivoluzione d'Ottobre, sfidando Dio, il KGB e il Partito con il solo amore di una madre. 

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Mi ha ricordato il miglior cinema russo e il bellissimo e struggente Cold War, sostituendo il romanticismo con una disillusione amarissima e brutale. Quella di Andrey Konchalovsky poi è una sceneggiatura a orologeria dove nulla è lasciato al caso ma niente è urlato o manierista. 

The Human Voice

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Pedro Almodóvar è arrivato a quel punto di una carriera in cui un autore sa dare senso e forza anche a un corto di 30 minuti.

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Sarebbe sufficiente lui con tutto il suo immaginario letterario, cromatico e cinematografico per far funzionare The Human Voice, ma c'è anche una Tilda Swinton in gran forma. Formalmente ineccepibile e con un cuore dietro. 

Mainstream 

Gia Coppola lo porta splendidamente il fardello di un cognome pesantissimo in campo cinematografico e riesce a creare un mondo tutto suo, deliziosamente e insopportabilmente cinefilo, fighetto, social e under 30. Dopo tanti sermoni dagli Herzog del caso, finalmente un nativo digitale prende la parola sui social network e ci cava fuori un film che non è meno duro nel raccontarne l'impatto sulle nostre vite, ma che per una volta ha il linguaggio e la sensibilità giusta per portarli con autenticità su grande schermo. 

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Attenzione anche a Maya Hawke che conferma di essere un'attrice in grado di fare grandi cose. Ne risentiremo di certo parlare, del film e di lei. (la recensione)

I peggiori 

Laila in Haifa

L'unico motivo per cui invitare Amos Gitai a Venezia ormai è evitare a un film italiano la scomoda posizione di peggior film in concorso. Laila in Haifa è una storia tutta corna e tradimenti, sesso raccontato ed esasperato più che fatto, figlia di un vouyerismo e paternalismo ormai insostenibili. Giovani donne bellissime e uomini un po' falliti e un po' bavosi, istraeliani di potere e disperati palestinesi: il solito catalogo di Gitai, ma declinato nel peggior modo possibile. 

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Prima di arrivare al punto bisogna sorbirsi i drammi del cuore e delle corna di una pletora di personaggi che appaiono e scompaiono senza che ce ne importi nulla, senza un brivido, un'emozione. Speriamo non lo veda Muccino o scatta subito un remake. 

Padrenostro

D'accordo l'emozione, d'accordo l'omaggio al padre scomparso, ma Padrenostro è un film che osa tantissimo formalmente senza averne le capacità. Vorrebbe essere ambiguo e duplice, mentre è solo tanto, tanto confuso. Anche un po' disonesto, giocando la carta dell'allucinazione, scartandola e poi facendola riapparire nel mazzo senza motivo. 

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Un film così mal sviluppato che persino l'osannato Pierfrancesco Favino sembra un pesce fuor d'acqua, una caricatura delle sue performance migliori. Il peggior italiano in concorso e il secondo peggiore del concorso (la recensione).

The Book of Vision 

Il più brutto film di quest'edizione tra quanti sono riuscita a vedere, distanzia anche i più tremendi di un paio di lunghezze. Quanti hanno pensato che The Fountain di Darren Aronofsky fosse fuffa mistico-zen sono caldamente invitati a vedere dove si può spingere il tema reincarnazione e amori ricorrenti nei secoli quando gestito al suo peggio. 

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Spiace vedere Charles Dance coinvolto in questa vetta di nonsense che azzecca la scena più scult della Mostra (il bambino che sputa in bocca alla protagonista apparendole in sogno) e che ci regala il medico con la peggior etica professionale del decennio, che va spifferare la diagnosi della sua paziente al compagno non si capisce nemmeno bene perché. Per non parlare della ricostruzione storica settecentesca con paurosi scivoloni in zona cosplay. 

Amants

Questo film avrebbe tutto per piacermi: è una pellicola sentimentale, è francese, è un thriller con l'amante che cospira alle spalle del marito, c'è quel dio greco e ottimo attore di Pierre Niney. Se un film come questo annoia una spettatrice ideale come la sottoscritta dall'inizio alla fine c'è un grande problema.

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Anzi più di uno: sono indecisa quale sia il più grave tra l'inesistente chimica tra Stacy Martin e Pierre Niney (paiono due modelli annoiati durante un servizio fotografico), la sceneggiatura colabrodo o il fatto che uno con l'eleganza e il portamento dell'attore francese è lo spacciatore dei bassifondi meno credibile della storia del cinema. Salvo giusto lo splendido guardaroba tutto maglioni e stoffe pregiate e la villa gelida e lussuosa dove è ambientata l'ultima parte. 

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