La conferenza stampa di Mandibules, il nuovo film di Quentin Dupieux presentato fuori concorso a Venezia 77, è stata un disastro. Non c'è altro modo per descrivere i trenta minuti in cui il regista e il cast avrebbero dovuto rispondere alle domande della stampa e della moderatrice, presentando il film e raccontandone ispirazioni e dietro le quinte.
Il tutto si è risolto in una serie di dichiarazioni ridanciane mezzo sussurrate fuor di microfono e parlottate con altri membri del cast, senza contare le contestazioni, i momenti di tensione e il gran finale in cui Quentin Dupieux ha gelato i presenti, contestando la traduttrice.
Mandibules: cronistoria di una conferenza stampa da dimenticare
I fatti nudi e crudi sono i seguenti. Quentin Dupieux e il cast del film arrivano in conferenza stampa, rilassati e sorridenti. Come sempre la moderatrice del panel comincia a fare alcune domande introduttive, coinvolgendo nel discorso tutti i presenti. Si parla della genesi del film, dei due comici che interpretano gli spiantati ragazzi che trovano una mosca gigante e decidono di addestrarla, di come Dupieux e i due abbiano avuto l'idea e l'abbiano portata su grande schermo.
A spiegare il tutto a dire il vero è soprattutto la moderatrice con le sue domande, perché gli interpreti Grégoire Ludig e David Marsais finiscono per parlottare tra di loro fuori di microfono, scambiandosi tutta una serie di battute a grande velocità, intraducibili dalle professioniste che, nei gabbiotti dedicati, stanno riportando in simultanea la conferenza stampa in svariate lingue.
Non conoscendo il francese, sto seguendo la conferenza con la cuffia sul canale uno, quello della lingua italiana. La traduttrice riferisce in più parti che quanto detto è intraducibile. Sto prendendo appunti ma non scrivo un granché, perché manca un discorso coerente da seguire, figuriamoci una qualche informazione rilevante per i lettori. Cambio allora canale audio, passando all'inglese. La situazione è identica: dato che gli ospiti parlano fuor di microfono e a grande velocità, le traduttrici non riescono a star loro dietro.
Alla prima domanda rivolta a Quentin Dupieux il regista risponde irritato, ma quanto meno dà un qualche tipo d'informazione. Le sceneggiature le scrive di getto, dice, non sta troppo a pensare ai simboli che vi inserisce e non analizza a posteriori il proprio lavoro. Il cineastra butta lì un riferimento un po' stizzito alla traduzione, dice di non capire in cuffia le domande perché tradotte male.
Si continua. L'attrice Adèle Exarchopoulos risponde alle domande sul suo personaggio, una bizzarra ragazza che per un trauma subito urla a squarciagola ogni volta che apre bocca. Anche lei ride e fa qualche battuta intraducibile, ma tutto sommato dà una risposta coerente e accettabile. A questo punto Quentin Dupieux si scoccia delle domande della moderatrice (che tradizionalmente coinvolge tutti gli ospiti prima di passare la palla ai giornalisti) e comincia a chiedere insistentemente se "gli esseri umani davanti a lui" hanno delle domande.
Qualcuno si fa avanti, qualche domanda è anche sensata e si potrebbe fornire una risposta semplice, salvando una conferenza avviata verso un nuovo traguardo di cafoneria e nonsense. Qualcuno chiede come sia stata realizzata la mosca, se con gli effetti speciali o con un modello fisico. Le risposte da qui in avanti si fanno inframmezzate con battute su mosche, escrementi e sempre più parti incomprensibili, mentre gli ospiti finiscono talvolta per chiacchierare tra di loro.
La moderatrice tenta il possibile, chiede una domanda generica sulle location. Quentin Dupieux replica che si rifiuta di rispondere a quel genere di domande, reazione solitamente riservata per quesiti insidiosi, intimi, sgradevoli e talvolta malevoli che vengono sempre dalla stampa. I moderatori sono sempre preparati sui film e spesso salvano le conferenze da situazioni imbarazzanti, mai il contrario: da loro non arriverà mai una domande scomoda o sgradita. O almeno, mai è successo negli quattro anni di conferenze stampa a cui ho assistito qui a Venezia, dove non sono mancati momenti imbarazzanti, polemiche, ospiti che alzavano la voce o minacciavano di andarsene. Conferenze stampa poco riuscite e momenti surreali seguiti a domande disastrose ne ho visti parecchi, ma quella di Mandibules è tra le peggiori in assoluto a cui mi sia capitato di partecipare.
L'impressione è che Quentin Dupieux sappia di aver per le mani un gran film: Mandibules è forse la cosa migliore vista finora in Mostra e, se fosse stato in concorso, avrebbe avuto buone chance di centrare un gran risultato. In un'edizione particolarmente sobria e austera nei toni, gli artisti e attori hanno alzato la voce solo per appellarsi agli spettatori a tornare nelle sale e salvare il circuito festivaliero (lo hanno fatto Almodóvar, Guadagnino, Tilda Swinton e tanti altri). Insomma, si vedono meno reazioni da prime donne del solito, per cui il pasticciaccio di Mandibules spicca ancora di più per contrasto.
Quello che è inaccettabile è come Dupieux abbia chiuso questa conferenza tremenda: dicendo di fronte a tutti che la traduzione era stata disastrosa e aveva rovinato tutto, gelando moderatrice, presenti e traduttrici. Con la morte nel cuore e nella voce loro hanno tradotto anche queste sue ultime parole.
Dare voce a chi non ha voce
Un momento di difficoltà può capitare a tutti, anche a professioniste preparate e spesso inserite nella realtà della Biennale da decenni. Quel che è inaccettabile è questo attacco frontale a delle traduttrici che stanno lavorando con e per noi, che devono tradurre le tue parole anche quando scarichi su di loro la responsabilità di una conferenza disastrosa, senza possibilità di replica.
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Quando ho visto che la situazione si faceva via via più critica ho fatto zapping tra i canali, appurando che la traduzione in spagnolo, italiano, inglese era frammentaria e difficoltosa. Di Mandibules ci sarà modo di parlare nei prossimi giorni, perché è un film che merita di essere visto e raccontato. Questo pezzo però vuole essere un abbraccio a quelle traduttrici insultate in diretta, un tentativo di dare loro voce, evitando che questa offesa rimanga relegata nei gabbiotti da cui continuano a lavorare.
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