Quante volte negli ultimi avete alzato gli occhi al cielo alla notizia che questo o quel film di successo degli ultimi 40 anni avrà un sequel o un prequel? Se siete nel novero di quanti si lamentano della mancanza di film originali nei cinema e sulle piattaforme streaming ma nell'ultimo fine settimana avete dato una chance a Il principe cerca figlio su Amazon Prime Video (o ai precedenti Jurassic World, Il risveglio della forza, Zoolander No.2, Men in Black II), siete inconsapevolmente parte del problema.
C'è una verità che tutti conosciamo ma che poi finiamo per ignorare quando si tratta di valutare le scelte degli studios tradizionali (e non): la bussola che guida le scelte degli stessi è il denaro. Gli incassi, il ritorno economico, il fatturato. In ultima istanza Hollywood insegue un bilancio in attivo a fine anno e un dividendo generoso per manager e azionisti. Le scelte di cosa produrre e quando hanno come priorità numero uno proprio questa.
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Il principe cerca figlio è un caso esemplare in questo senso e la linea scelta da Paramount (un piccolo studio sull'orlo del fallimento che ultimamente sta inanellando una serie di successi poco visibili ma concreti) è altrettanto interessante. Il principe cerca figlio nasce come sequel della fortunata pellicola del 1988 di John Landis Il principe cerca moglie (Coming to America), il maggior successo commerciale dell'allora strepitosa carriera di Eddy Murphy. Il film non è un remake bensì un sequel: una struttura narrativa che permette di richiamare tutto il cast originale e introdurre tutta una serie di nuovi attori e star in un film che si punta a trasformare in un franchise (e infatti un terzo capitolo è in arrivo).
Un sequel di successo
L'esordio di Il principe cerca figlio su Amazon Prime Video ha riscosso ottimi numeri. Si avvia ad essere il successo più fulgido per un film originariamente pensato per il grande schermo poi dirottato su una piattaforma streaming dall'inizio della pandemia. In questo senso Paramount è stato l'unico dei grandi studios a concedere una buona fetta dei suoi titoli più importanti al circuito streaming. Solo i numeri dei minuti effettivi visionati dagli abbonati ci diranno se l'esordio su Amazon è stato davvero un successo e non un pigro "play" sull'ultima novità, interrotto poco dopo. Rimane il fatto che Amazon ha sborsato 125 milioni di euro per averlo in catalogo. Un altro film di Paramount ceduto a una piattaforma di streaming (stavolta Netflix) come Il processo ai Chicago 7 non ha riscosso altrettanto successo, anche se con un cast ricco di star e qualitativamente migliore.
Questo è uno dei tantissimi esempi che raccontano il cambiamento di strategia di Hollywood, disegnato sulle scelte del pubblico pagante. Quando ci si lamenta che non ci sono più film originali, si tende a dimenticare che tendono ad avere un ritorno economico molto inferiore a titoli legati a pellicole o franchise del passato. Successi innegabili su una base qualitativamente eccepibile come quelli mietuti da Jurassic Park e Jumanji raccontano come il pubblico - che un tempo andava in sala sulla base dei nomi sul cartellone - oggi va al cinema o si siede sul divano per vedere ciò che già conosce. I più attenti potranno notare che il trend si sta manifestando anche nel mercato seriale.
Non è una questione di pigrizia o di mancanza di attitudine al rischio di Hollywood, quanto piuttosto nostra. Nel mare magnum di sequel e prequel ci sono poi ciofeche inenarrabili e autentici capolavori (vedi Mad Max: Fury Road), grandi successi e notevoli flop, ma ma bilancia commerciale pende a favore di storie e facce già note.
Non più remake ma sequel
Il caso di Il principe cerca figlio è emblematico anche sotto un altro aspetto: la decisione di non puntare più sui remake, ma su sequel e prequel, senza cancellare l'originale. Si tratta di un'evoluzione recente del trend dei rifacimenti, di cui non è difficile intuire le ragioni.
La prima è di carattere commerciale: realizzando un sequel è possibile coinvolgere il cast originale, avendo un ulteriore motivo di attrattiva da spendere in fase promozionale. Con il tramonto dell'era delle star hollywoodiane "butts on seats" (fondoschiena sulla poltroncina, ovvero quelle che con la loro semplice presenza nel cast garantivano un ritorno economico sicuro), arruolare vecchie glorie del cinema la cui carriera non è più brillante come un tempo è decisamente più economico. Eddy Murphy è un esempio perfetto: attrae l'attenzione ma un cachet decisamente più contenuto rispetto agli anni '80. Procedere in questo modo permette anche di pigiare a tavoletta sul pedale della nostalgia o della cinica osservazione degli anni che avanzano, per tutti, da cui alcuni traggono un certo, inconfessabile piacere.
I sequel in particolare permettono di introdurre una nuova generazione all'interno di un franchise, nella speranza di azzeccare un nome che poi diventi una stella di prima categoria, magari vincolata con un contratto multifilm. Altrimenti si può optare per l'opzione prequel, mettendo per protagonista un interprete che suscita curiosità e attesa, vedi Emma Stone come Crudelia Demon in Cruella.
I remake al contrario sono più rischiosi, perché bisogna introdurre nuovi personaggi e ricostruire da zero l'intero franchise. Non mancano esempi di successo in questo senso, ma ultimamente c'è uno scoglio in più: l'indignazione social. Perché rischiare l'onda di polemiche dei vecchi nostalgici che si sentono indignati di fronte al rifacimento del loro film adolescenziale preferito quando li si può trasformare in una porzione di spettatori sicuri e in una cassa di risonanza per la promozione di un titolo complementare al classico che amano?
Seza dimenticare che sequel e prequel permettono con facilità di espandere un film elementare in un universo abbastanza complesso da sostenere un franchise. Il terzo o quarto capitolo fa flop? Nessun problema. Si aspetta un po' e ci si riprova, come sta accadendo (senza troppa fortuna) alla saga di Terminator.
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