Come nel cinema horror c’è un pedaggio concettuale che ogni nazione prima o poi paga - ed è quello di realizzare un filma a tema zombie - così anche il cinema di fantascienza (declinato nel fanta-horror, in questo caso) ha il suo debito morale verso il quale tutti si sentono in obbligo. E chi riscuote il credito in questo caso? Il più classico, confortevole, amato alieno assassino che viene dallo spazio.
Con Sputnik, pellicola del 2020 vincitrice del premio Asteroide al Trieste Science+Fiction Festival, approdata in prima assoluta su Rai4 il 26 aprile (non è una data casuale, il 26 aprile è l’Alien Day!) e ora disponibile su RaiPlay, tocca alla Russia e al regista esordiente Egor Abramenko saldare il debito con lo xenomorfo per eccellenza. Un po’ Alien (1978), un po’ Life (2017), Sputnik si rivela essere una pellicola classica nel genere che però porta interessanti novità soprattutto nell'ambito delle simbologie sociali che affronta.
E lo fa con un viaggio in tre tappe:
Coordinate di partenza
Sputnik è ambientato nel 1983. I cinema di tutto il mondo stanno proiettando Il Ritorno dello Jedi ma i due astronauti russi in volo sulla navicella spaziale Orbit-4 hanno faccende più serie di cui occuparsi. I conflitti della 'galassia lontana lontana' tra l’Impero e la Ribellione non sono nel loro ordine del giorno mentre lo è il volo di ricognizione orbitale - siamo in piena Guerra Fredda - in cui sono impegnati. Soprattutto quando qualcosa, qualcosa che sembra avere una volontà sua, intercetta l’Orbit-4. E soprattutto quando questo qualcosa decide di ritornare sulla Terra insieme ai due astronauti.
L’Orbit-4 rientra nel Kazakistan russo, uno dei due piloti è morto in maniera orribile mentre l’altro, Konstantin Veshnyakov (Pyotr Fiodorov), è sopravvissuto. Ma a quale prezzo? L’eroe russo – questa parola, eroe, sarà al centro di uno dei tanti sotto testi di Sputnik – viene rinchiuso all’interno di una base militare comandata dal cinico colonnello Semiradov (Fedor Bondarchuk). E sarà proprio Semiradov a coinvolgere la psicologa Tatyana Klimova (Oksana Akinshina) per tentare di capire cosa è successo davvero a Konstantin Veshnyakov.
Tappe intermedie
Dall’arrivo di Tatyana alla base segreta in poi, Sputnik intraprende un sentiero a tratti citazionista ma connotato da un carattere forte e determinato. Il paragone con Alien viene spontaneo ma Sputnik riesce a stare abbastanza lontano dal Sole da non bruciarsi le ali (cosa che Life, invece, non era riuscito a fare). Richiama perciò alcune caratteristiche della pellicola di Ridley Scott come la forte componente claustrofobica, la fascinazione della ricerca esobiologica, una protagonista femminile forte, l’opacità dei motivi che spingono Semiradov e il suo staff a tenere in vita sia Konstantin che il passeggero sceso insieme a lui dall’Orbit-4.
Abramenko dimostra anche di essere piuttosto permeabile alle suggestioni di genere, ma sempre nell’ottica di una citazione, del prendere qualcosa che funziona e declinarlo a suo uso e consumo. L’ospite dell’Orbit, l’alieno simbionte che si libera dal corpo di Konstantin, ha un’estetica che assomiglia molto a quella del marziano Calvin di Life, tanto da far fantasticare su un possibile legame – anche solo spirituale - tra i due film. In alcuni momenti il regista mutua anche qualche frammento da un cinema horror consolidato, un genere nel quale la creatura lascia il corpo che possiede se questo si trova in fin di vita.
Anche qui, però, Abramenko si limita a citare, a raccogliere le cose migliori che ha visto in cerca di una sua indipendenza che poi trova. Nei fatti si rivolge a un immaginario piuttosto consolidato, a quelli che potrebbero essere interpretati come luoghi comuni del fanta-horror. Luoghi comuni che in realtà Sputnik cita – e usa - per costruire un terreno comune e per poi raccontare la sua personale storia. Ed è qui che il regista dimostra la sua cifra narrativa mettendo in chiaro dove vuole arrivare.
Punti di arrivo
Sputnik dà il suo meglio nell’intrecciare i comportamenti di Tatyana, Konstantin, il colonnello Semiradov e persino dell’alieno con il substrato politico e culturale dell’ambientazione scelta dal regista. La Russia è quella del 1983, prima di Gorbaciov, prima dei cambiamenti che culmineranno con la caduta del Muro di Berlino e che consegneranno alla storia un continente del tutto diverso. Una Russia comunista dove personalità sfaccettate come quelle di Konstantin e Tatyana vengono catalizzate dall’interazione con le necessità di un apparato sociale e politico che controlla ogni cosa.
Così Konstantin vuole essere l’eroe a tutti i costi. Cerca e desidera una sua autonomia, una sua unicità, un suo essere eccezionale contro ogni logica. Anche per questo accetta la prigionia, anche per questo non si pone troppe domande. In qualche maniera, viene sedotto. Viene sedotto con promesse di gloria mai del tutto realizzate e mai esplicitate chiaramente, viene sedotto anche dal suo strano rapporto con l’ospite dell’Orbit-4, la creatura che vive dentro di lui.
Tatyana a suo modo è l’altra faccia di Konstantin. È una donna ribelle (che forse in parte mutua il carattere della Ripley di Alien). Una donna pronta ad andare contro il sistema, contro le regole, contro i suoi superiori pur di arrivare all’obiettivo. E l’obiettivo di Tatyana è quello di salvare vite, di curare traumi. Una missione, la sua. Una missione che in qualche maniera, forse, incarna il meglio del comunismo da guerra fredda. Un socialismo emotivo, mentale e psicologico che la spinge a cercare una soluzione ai problemi di Konstantin. Contro tutti e tutto.
Il colonnello Semiradov, invece, è uomo dell’apparato. Del sistema. Del regime. Si muove nelle zone oscure di un potere che si alimenta di sé, un potere che derivava dalla paura, dalle storture concettuali della Guerra Fredda. Perciò è ambiguo. In apparenza amichevole, in apparenza interessato alla salute di Konstantin, ha però scopi del tutto differenti. Se Tatyana incarnava il meglio del sistema, Semiradov di certo è araldo dei peggiori istinti di quel complesso periodo.
Ultimo ma non ultimo, il simbionte. La perfetta metafora del terrore del regime. La rappresentazione estremizzata di una complessa macchina burocratica capace di far sparire detenuti poco graditi alla società utilizzandoli per i propri esperimenti, mortali o meno che siano. È un caso che il simbionte si nutra di paura? È un caso che Semiradov – e i superiori del colonnello – lo vogliano sfruttare come possibile arma? Non è una chiara (e nemmeno tanto sotterranea) similitudine? Oppure, ancora di più, non è un modo per criticare a posteriori ciò che è accaduto in Russia durante la guerra fredda? Ciò che di fatto rischiava di accedere in tutto il mondo?
La simbiosi, la mutua assistenza, la reciproca dipendenza richiama in qualche maniera i concetti più alti di una condivisione socialista teorica e l’alieno è proprio questo. Un simbionte. Ma un simbionte che si nutre di paura. E allora, non è forse tutta una metaforica critica a una struttura politica che potrebbe essere salvifica nella sua simbiosi (perché l’alieno, di fatto, salva Konstantin) ma che poi si perde compiacendosi della paura che genera?
Il fatto che Sputnik nel suo svolgimento più fanta-horror sfrutti le dinamiche dei classici del genere lascia tempo e modo al regista di esplorare altri aspetti, di concentrarsi sulla psicologia dei personaggi e sulle loro interazioni col complesso momento storico scelto come ambientazione. Non è e non può essere un caso: ecco perché Abramenko riesce a fare un lavoro davvero interessante, non banale, e con tanti livelli di lettura.
Sputnik è disponibile su RaiPlay.
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