Nel dicembre del 2001 (in Italia dal 18 gennaio del 2002) il mondo del cinema fu travolto dalla trasposizione sul grande schermo di una delle più epiche battaglie tra il bene e il male: usciva nelle sale La Compagnia dell'Anello, primo capitolo della straordinaria battaglia per la salvezza della Terra di Mezzo. Undici mesi prima però, di certo con meno clamore e in maniera meno appariscente, veniva combattuta nei cinema un'altra battaglia.
Una battaglia per la salvezza del nostro presente e con esso dell'intero mondo per come lo conosciamo, una battaglia che al posto di hobbit, elfi e nani aveva per protagonista un giovane problematico, terrorizzato dalla solitudine ma al tempo stesso anche attratto da essa. Un ragazzo che la notte del due ottobre del 1988, sonnambulo e trascinato fuori dalla camera da letto dalla visione di un enorme coniglio antropomorfo, scamperà all'incredibile schianto di un motore di aereo precipitato proprio nella sua stanza. Quel ragazzo si chiama Donald Darko e il film di cui era protagonista è Donnie Darko (uscito nel 2001 in America, solo nel 2004 in Italia).
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L'inizio della fine
Di cosa parla Donnie Darko? Cosa racconta questa pellicola accompagnata da una straordinaria colonna sonora? Il film, destinato poi a diventare un cult ma forse uscito in un contesto che non era ancora pronto ad accoglierne la profonda, intensa e sconcertante malinconia (ricordiamo, era l'anno de La Compagnia dell'Anello e la trilogia prequel di Star Wars catalizzava l'attenzione di tutti gli appassionati del fantastico), inizia con lo schianto di un motore d'aereo arrivato dal nulla e prosegue con una profezia sulla fine del mondo.
Svegliati. Ti ho osservato a lungo. Sono qui, vieni. Più vicino. 28 giorni, 6 ore, 42 minuti, 12 secondi. Ecco quando il mondo finirà.
Con queste parole il coniglio Frank anticipa a Donnie Darko (un Jake Gyllenhaal in stato di grazia) la fine di tutto. Dall'incidente dell'aereo in poi per Donnie inizia in un vero e proprio viaggio in 'un mondo più vasto' che però niente a che vedere con il percorso di Luke Skywalker nelle vie della Forza. Donnie scopre l'esistenza della predestinazione, della paura, della solitudine, della difficoltà di essere ragazzi, dell'amore, della perdita, della giustizia e della sofferenza. Frank in apparenza guida Donnie ma non come un saggio Maestro Jedi, quanto come un ricattatore emotivo: fai ciò che dico e ti condurrò un passo dopo l'altro verso la verità, verso la comprensione di un destino già scritto.
E per Donnie verità e destino sono due ossessioni. Quando allaga la scuola e poi conosce e si innamora di Gretchen (una Jena Malone quasi angelica nella sua disarmante purezza), quando incendia la casa del predicatore Jim Cunningham (il compianto Patrick Swayze) e ne denuncia pubblicamente le perversioni, si convince sempre più di essere sul giusto sentiero. Di aver trovato la via, il tassello mancante nello sconclusionato mosaico che è la sua vita, ciò che gli impediva di essere felice come tutti, lui compreso, avrebbero voluto.
Ma non è così. Nel mondo pieno di simbologie costruito dal talento qui pienamente espresso del regista Richard Kelly non ci sono scorciatoie, non ci sono certezze, non ci sono soluzioni facili. E il coniglio Frank era stato chiaro. Il 30 ottobre il mondo sarebbe finito.
I simboli di Donnie Darko
Prima di arrivare al controverso, immaginifico, profondo e destabilizzante finale di Donnie Darko, è necessario offrire qualche coordinata in più all'opera prima di Richard Kelly. Kelly sceglie di ambientare il suo film nel 1988 e attraverso una narrazione pulita ma profonda, esprime tutte le preoccupazioni che lui stesso, nel 2001 giovane ventiseienne, ha e aveva per il presente che stava vivendo e per il passato da cui proveniva. Preoccupazioni che trasforma in strutture e simboli.
C'è un bonario conflitto ideologico, quello tra il padre di Donnie (Holmes Osborne) e la sorella Elizabeth (Maggie Gyllenhaal, sorella anche nella vita di Jake/Donnie), tra George W. Bush e Michael Dukakis, c'è il conflitto generazionale tra una classe di insegnati conservatori e i nuovi docenti che cercano di spingere i ragazzi ad apprezzare ragionamento, estetica e libertà di pensiero. C'è l'uomo dell'apparato sociale, Jim Cunningham, che tenta di anestetizzare le giuste ansie di una generazione sulla soglia del cambiamento confezionando un'ideologia post-religiosa fatta su misura.
C'è la premiere cinematografica di Halloween a cui Donnie e Gretchen vanno e nella quale vengono proiettati La Casa (capolavoro di Sam Raimi) e a seguire L'Ultima Passione di Cristo (uscito proprio nel 1988 e diretto da Martin Scorsese, film molto controverso in America). Una sferzata, quella di Richard Kelly, alla censura e agli osteggiatori della libertà di espressione. Sferzata, la sua, che incarna in Donnie, nella sua incapacità di ragionare per assoluti, nella sua complessità, fragilità, ribellione e generosità. E un suggerimento: nel film di Scorsese, Gesù non può in nessun modo sfuggire al destino di sacrificio per lui già scritto.
E c'è la predestinazione, concetto iniettato sotto pelle allo spettatore un fotogramma dopo l'altro, un dialogo dopo l'altro. I liquidi flussi che sgorgano dal petto delle persone e che le conducono verso le loro azioni - moderni fili della vita post-litteram, quelli che le Parche della mitologia romana recidevano con le loro forbici per interrompere la vita dei mortali - sembrano guidare la vita di ciascuno, sembrano determinarne i gesti. È seguendo uno di questi fili che Donnie trova la pistola nella camera dei genitori.
Ed è attraverso la pistola che Donnie ucciderà Frank creando, di fatto, il suo stesso mentore coniglio-gigante. Richard Kelly dispone tutti i pezzi sulla scacchiera introducendo anche la figura di Nonna Morte, l'ex suora Roberta Sparrow, attratta dai viaggi nel tempo, studiosa dei flussi temporali e ora donna sola, sempre in attesa di qualcosa, di una lettera che forse prima poi arriverà. È suo, della Sparrow, il CellarDoor, la porta sulla cantina, il crocevia tra passato, presente e futuro.
La fine è l'inizio?
Il 30 ottobre 1988 è la data della fine del mondo. È la data predetta dal coniglio Frank, è la data in cui il motore dell'aereo si stacca dal volo su cui una parte della famiglia di Donnie si trova, è il momento in cui questo motore - navicella di metallo in grado di affrontare una frattura nello spazio tempo - entra in uno di questi wormhole e viaggia verso il passato, verso quel due ottobre, verso la camera di Donnie.
Il 30 ottobre è la data in cui Gretchen muore investita dalla macchina guidata da Frank. È la data in cui lo stesso Frank viene ucciso da Donnie. Ed è il limite di sopravvivenza dell'universo parallelo in cui Donnie ha vissuto per ventotto giorni, sei ore, quarantadue minuti e dodici secondi. È intorno a questo che si sviluppa la narrazione di Kelly e la magnificenza del suo finale.
Certo, sarebbe facile derubricare quanto accaduto a Donnie come un sogno, oppure come un effetto collaterale della sua schizofrenia oppure ancora attribuire alla pellicola risvolti numerologici o più o meno esoterici, ma Richard Kelly nella sua director's cut (uscita in America nel 2004, in Italia disponibile solo in home video) ha voluto mettere i puntini sulle i. Venti minuti in più, molti dei quali dedicati proprio a Roberta Sparrow e al suo testo La filosofia del viaggio nel tempo (testo fittizio inventato dal regista), venti minuti nei quali Kelly vuole portare la nostra attenzione su quello che è il suo nucleo narrativo: dimensioni parallele e universi tangibili.
Questo è quanto succede la notte del due ottobre. Si crea un universo parallelo, un Universo Tangente a quello stabile e reale, un ramo alternativo dello spazio e del tempo nel quale Donnie vive per ventotto giorni. Ventotto giorni nei quali il ragazzo può esplorare le sue paure più profonde guidato dal proprio mentore, dal coniglio Frank, ventotto giorni nei quali riesce a comprendere la solitudine, l'amore, la paura, la sofferenza. Ma questo universo è destinato a collassare proprio perché nato da una stortura nello spazio tempo e il tessuto fratturato della quarta dimensione - il tempo - può essere ricucito solo creando le condizioni affinché il motore d'aereo abbia una vera provenienza concreta e tangibile, a suo modo.
Ecco il senso di Frank. Degli ordini che dà a Donnie. Ecco il senso dei fluidi-guida che Donnie vede in sé stesso e negli altri. I ventotto giorni vissuti nell'Universo Tangente sono un percorso, un domino i cui tasselli devono tutti cadere nello stesso momento per fare in modo che Donnie e le sue azioni (l'acqua della scuola, l'incendio della casa di Cunningham a seguito del quale la madre dovrà prendere l'aereo, la festa di Halloween, la CellarDoor) rimettano insieme lo strappo nello spazio tempo creando, di fatto, le opportunità che porteranno al distacco del motore dando nuovo equilibrio a tutta la quarta dimensione.
Questa è la verità scientifica dietro il finale di Donnie Darko, le necessità di causa-effetto, spazio e tempo che devono coesistere affinché il nostro presente non cada in pezzi. Ma c'è una seconda verità. Più raffinata. Più drammatica. Più solitaria.
Non voglio restare solo
Se la quarta dimensione, il tempo, è il collante che tiene insieme la nostra realtà e le permette di guarirsi dai rari strappi cui è soggetta, la solitudine è la coordinata che Donnie rifiuta senza se e senza ma.
La ricerca di Dio è assurda?
Lo è, se ognuno muore da solo.
Risponde Donnie alla dottoressa Thurman (Katharine Ross). E in queste poche parole c'è tutta l'angoscia di un ragazzo che più di ogni altra cosa teme di essere, restare e sentirsi solo. Donnie vede in Nonna Morte ciò che potrebbe diventare: un vecchio centenario intrappolato nello studio delle proprie teorie sui viaggi nel tempo, nella consapevolezza delle predeterminazione in una cantina che contiene le speranze di una vita. Ma soprattutto, un vecchio centenario in attesa di una lettera, di qualcosa che lo faccia sentire meno solo. Ed è anche per questo che scrive la sua lettera il cui contenuto è riportato viene rivelato nel finale.
Donnie teme quello, più di ogni altra cosa. E il suo viaggio nell'Universo Tangente, i ventotto giorni rubati in una dimensione che non dovrebbe esistere, lo portano proprio a questo. Solo, per la morte di Gretchen dopo lo scontro con la macchina di Frank alla CellarDoor, solo, per l'incidente aereo che potrebbe colpire i suoi cari, solo e catalizzatore di cose cattive. È proprio Gretchen, con queste parole, a offrirgli un punto di vista e una via di fuga:
Pensa se uno potesse tornare indietro nel tempo, prendere tutti i momenti neri e dolorosi e rimpiazzarli con qualcosa di meglio!
E Donnie fa questo. Mentre contempla la frattura, fa esattamente questo. Un bilancio, una somma di ciò che è stato, di ciò che ha causato, di ciò che ha scatenato e decide di rimuovere i momenti neri e dolorosi. Decide di rimuovere sé stesso. Perciò torna al due ottobre e si rimuove dall'equazione esistenziale di quei ventotto giorni vissuti in un futuro possibile. Si sacrifica per salvare quelli che ama, e con essi salva anche sé stesso. Agli altri, a tutti quelli che hanno interagito con lui, cosa resta?
Solitudine. Una nuova costante universale, tanto forte quanto è la quarta dimensione. Tutti coloro che lo hanno incontrato senza incontrarlo davvero sono accomunati da una grande solitudine. Ecco il senso della carrellata finale sulle note di Mad World (qui nella versione di Michael Andrews e Gary Jules), ecco il senso di quelle lacrime perdute. La consapevolezza di aver perso qualcosa di prezioso senza averne mai davvero apprezzato la bellezza.
Questa, una solitudine malinconica capace di viaggiare attraverso spazio e tempo, è una delle più grandi eredità di Donnie Darko.
Disponibile su Netflix, cosa pensate del finale di Donnie Darko?
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