La storia alternativa di C'era una volta a... Hollywood di Tarantino

Autore: Emanuele Zambon ,

Uno si prende la scena, l'altro fa il lavoro sporco sul set. Entrambi assistono impotenti, come performer TV in attesa di compiere il grande balzo sul grande schermo, ad una fase di transizione che procurerà all'eta d'oro di Hollywood una lenta agonia, in attesa della nuova generazione di autori impegnati che stileranno un nuovo testamento del cinema statunitense a partire dalla fine degli anni '60.

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Rick Dalton e la sua controfigura Cliff Booth si muovono in una Los Angeles pop illuminata da una fitta rete di insegne al neon, ricostruita da Quentin Tarantino nel suo #C'era una volta a... Hollywood. Un film scosso da soffi vitalistici e presagi di morte, che celebra il mondo della celluloide dei favolosi anni Sessanta contaminandolo con la fine del sogno americano e un risveglio drammatico in una società che fa i conti col dilagare della violenza. Non è un caso che la pellicola arrivi a 50 anni esatti dalla strage di Cielo Drive in cui perse la vita, tra gli altri, l'attrice Sharon Tate. Proprio il massacro perpetrato dalla setta di Charles Manson è il grande spauracchio della nona opera del regista di Pulp Fiction, la cui mano investe il cinema di un compito salvifico: cambiare il corso degli eventi, trasformando una notte da cronaca nera in uno scampato pericolo da raccontare ai nipoti.

In C'era una volta a... Hollywood il gioco metacinematografico affiora a più riprese, toccando punte di originalità (come quando in scena irrompe l'attore Mike Moh nei panni della leggenda delle arti marziali Bruce Lee, che proprio a partire dai primi anni '70, anni in cui è praticamente ambientato il film di Tarantino, divenne una star dei kung fu movie); parallelamente si fa strada un altro tratto distintivo del cinema tarantiniano: il gusto per la citazione, che qui diviene un pretesto per un revival di interpreti, titoli e b-movie immaginari che animarono il periodo raccontato nel film.

Nella Los Angeles del 1969 in cui tutto sta cambiando, l’attore televisivo Rick Dalton (impersonato da Leonardo DiCaprio) e la sua storica controfigura Cliff Booth (Brad Pitt) entrano in qualche modo in rotta di collisione coi piani sanguinari della Manson family. In che modo? Affittando una villa a Cielo Drive. Non una qualunque, proprio quella accanto alla residenza di Roman Polanski e di sua moglie Sharon Tate, che nel lungometraggio ha le fattezze della bellissima Margot Robbie.

Il film segue le vicende di Dalton e Booth, colleghi e amici sul viale del tramonto, figure dalla personalità ben marcata (il primo sembra soffrire di un disturbo bipolare che tenta a fatica di soffocare nell'alcool, il personaggio di Pitt è ben più complesso sotto lo strato superficiale). Dalton si affanna per trovare una scrittura e non rimanere ai margini di Hollywood, Booth segue con un certo piglio indolente l'amico attore, esercitando la propria professione di stuntman.

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Di ritorno negli States dopo la trasferta italo-spagnola degli spaghetti western e dei film avventurosi di serie b, i due, in procinto di dividere le proprie strade, vivranno una notte a dir poco surreale. Sarà proprio la notte della strage di Cielo Drive che però, questo è il gioco preferito da Tarantino fin dai tempi di Bastardi senza gloria, non avverrà mai in C'era una volta a... Hollywood. Appellandosi all'ucronia, il cineasta nato a Knoxville, non solo mescola piccola e grande Storia (come era solito fare Sergio Leone), ma addirittura ne ribalta l'esito, cancellando - potere del cinema - ciò che è stato e riscrivendo ciò che sarebbe dovuto invece accadere. Insomma, Tarantino, come contro Hitler e il Terzo Reich, ha la meglio sulla cronaca nera e sugli eventi realmente accaduti.

La strage di Cielo Drive

Cosa accadde infatti in quella notte tra l'8 e il 9 agosto 1969? Cinque innocenti, fra cui appunto Sharon Tate, vennero massacrati da un gruppo di psicopatici seguaci di Manson. Diversamente da ciò che viene mostrato in C'era una volta a... Hollywood, dove gli assassini sbagliano villa ritrovandosi faccia a faccia con un Cliff Booth strafatto ma non troppo (e soprattutto con il suo pitbull Brandy) e con un Rick Dalton armato di lanciafiamme, quella notte nel Benedict Canyon tre membri della family penetrarono nella villa affittata da Polanski (rimasto in Europa a girare un film) armati di un revolver calibro 22, di coltelli e di una corda di nylon lunga tre metri. Il commando omicida era composto da Tex Watson (23 anni), Susan Atkins (21 anni) e Patricia Krenwinkel (21 anni). Gli esaltati uccisero la Tate, incinta di otto mesi e mezzo, insieme a tre amici che erano in visita in quel momento, e un ragazzo di 18 anni, che venne ucciso per primo mentre stava lasciando l'abitazione del custode. La Tate venne uccisa per ultima con 16 coltellate, dopo essersi offerta come ostaggio volontario chiedendo in cambio di lasciar vivere il bimbo che portava in grembo (l'attrice era all'ottavo mese di gravidanza).

L'eccidio venne commesso per dare un segnale al mondo dell'entertainment. Gli assassini vennero infatti istruiti da Manson, aspirante musicista che aveva precedentemente tentato di stipulare un contratto con il produttore discografico Terry Melcher, precedente affittuario della casa (dal maggio 1966 al gennaio 1969) insieme al musicista Mark Lindsay e all'allora fidanzata di Melcher, l'attrice Candice Bergen. Il produttore, però, rifiutò di mettere sotto contratto Manson, scatenando l'ira dell'uomo, deciso a vendicarsi.

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