Sono molti anni che Roman Polanski insegue il suo sogno di realizzare un film che racconti, dall'inizio alla fine, lo scandalo Dreyfus. L'affaire che portò in prigione un innocente membro dell'esercito francese con l'accusa di alto tradimento dopo essere stato sospettato in quanto ebreo fu uno scandalo senza precedenti, che impattò sulla memoria collettiva francese e finì anche tra le pagine della Recherche di Proust. Il titolo originale del film, J'accuse, allude poi a quello che è forse il più celebre articolo di giornale di sempre, a firma Émile Zola. L'impatto fu tale che il suo titolo è diventato un modo di dire per parlare di una presa di posizione dura, di un attacco frontale.
L'affare Dreyfus è ancor oggi parte del programma scolastico francese e un pezzo essenziale per capire l'antisemitismo che avrebbe poi imperversato per tutto il vecchio continente e per buona parte del Novecento. Dreyfus per tanto è un nome celebre quanto vuoto, indefinito, sepolto nelle memorie confuse di scuola ma privo di concretezza umana nella sua storia.
Lo era anche per Louis Garrel e molti degli interpreti di L'ufficiale e la spia, il film di Polanski che racconta questa complessa storia di macchinazioni, caccia alle streghe, pregiudizi e atti eroici.
Storia di un quasi eroe
Se si è dovuto tanto aspettare per realizzare questo film - la prima produzione cinematografica franco-italiana di grande respiro da parecchio tempo a questa parte - è anche colpa di Polanski, un arzillo 86enne noto per la sua ricerca ossessiva della verità. Ogni dettaglio storico, ogni set e ogni costume devono essere più che suggestivi o belli, devono essere il più fedeli possibile a ciò che accadde a partire dal 5 gennaio 1895 e si protrasse per gli undici anni successivi tra processi, omicidi e rivelazioni.
In molti si aspettavano (e alcuni hanno sostenuto) che la vicenda sia studiatamente selezionata dal regista per sovrapporre sé stesso al suo protagonista ebreo e perseguitato, assumendo il ruolo di martire di fronte a un mondo che lo accusa. Invece J'accuse è lontanissimo dall'essere la storia di un martirio e Polanski ha troppo rispetto verso la vicenda e troppa urgenza di tramandarla alle generazione successive per trasformarla nella propria battaglia personale. L'ufficiale e la spia ha quell'approccio disadorno ed essenziale di Il pianista, ma ancor più ridotto all'essenza, limitando al minimo l'intervento poetico e artistico della regia.
C'è solo una scena in cui si sente la presenza di Polanski, oltre al piccolo cameo che si concede apparendo come invitato a una festa da ballo. Il regista non si sovrappone a Dreyfus (interpretato da un irriconoscibile Louis Garrel) bensì al personaggio di Georges Picquart, l'eroe ambiguo della storia. Dopo aver preso involontariamente parte alla manipolazione del primo processo contro il soldato ebreo, Picquart comincerà a capire che l'accusa di alto tradimento mossagli è stata manipolata e la spia è qualcun'altro. La sua lotta per la verità non è quella del paladino senza macchia, ma di un personaggio con molte zone grigie, che apre e chiude il film ponendosi in conflitto con Dreyfus e dichiarando di non amare gli ebrei.
Al suo fianco c'è una donna sposata da un altro, l'amante e l'amata di una vita. A un certo punto Picquart, che non si è mai sposato, le fa in maniera non troppo convinta la proposta di matrimonio. La donna, interpretata dalla compagna di vita di Polanski Emmanuelle Seigner, replica:
Tu non sei il tipo da sposarsi e in questi anni mi hai fatto capire che non lo sono nemmeno io.
I due camminano mano nella mano e si guardano complici. Lì si sente la presenza di Polanski che si sovrappone a quella di Jean Dujardin, in una scena ricca di affetto e sconfinato romanticismo, come uno di quei quadri impressionisti francesi di amanti profondamente addormentati a letto, quasi completamente coperti dalle trapunte invernali. È una piccola concessione a un film che si astiene persino dal rincorrere un senso di grandezza cinematografica che il regista polacco naturalizzato francese non avrebbe problemi a ottenere, se solo lo volesse.
Qui invece siamo di fronte a una pellicola didattica - nel senso più positivo possibile del termine - di un uomo che vuole che il resto dei francesi e del mondo abbiano ben chiaro cosa sia successo ancor prima dell'Olocausto, realizzando un thriller per ritmo che è in realtà una lezione di storia su quanto siano profonde le radici dell'antisemitismo francese. Avrebbe potuto realizzarlo in inglese, partendo alla ricerca di un mercato più ampio, ma alla fine J'accuse parla francese, un memento per la nazione che lo ha ospitato e ancora oggi evita che possa essere estradato negli Stati Uniti.
Non c'è nulla di articolato in questo film semplice, ma è tutto ridotto all'essenziale come solo un grande uomo di cinema può permettersi senza scadere nel banale e nel riduttivo. L'unico appunto che mi sentirei di fare a un film che sostanzialmente non ha sbavature è che la palette particolarmente scura, fredda e contemporanea scelta da Polanski ha una una vibrazione molto contemporanea, che cozza un po' con l'aspettativa di immagini e colori caldi da film in costume. Per il resto Polanski non ha nulla da rimproverarsi dentro l'economia di questo film, perché è stato ben attento a non inquinare la storia di Alfred Dreyfus con la propria, lasciando che sia la forza di quanto successo a diventare affermazione politica. Lasciando che sia l'antisemitismo francese di ieri a ricordarci quanto sia preoccupante quello che si fa più oppressivo oggi.
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Voto di Cpop
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