Luca Guadagnino dice di non amare i temi, ma di farsi guidare dai personaggi fino alle estreme conseguenze, alla ricerca della realtà. Guardando We Are Who We Are, la sua prima serie per il piccolo schermo prodotta con Sky e HBO, si capisce chiaramente cosa intenda. Non che manchino le tematiche affrontate da questo coming of age di due adolescenti, tanto da rendere il risultato finale iper-contemporaneo, denso, politico.
Fraser e Caitlin, i due giovani protagonisti della serie, affrontano insieme la scoperta del desiderio, la costruzione della propria persona sociale e la definizione della propria sessualità. La dimensione intimista si scontra con il difficile rapporto con i loro amici e i genitori, verso cui i due protagonisti si dimostrano scostanti o morbosamente attaccati.
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La serialità ermafrodita di Guadagnino
La serie è ambientata nello scorso semestre elettorale statunitense: si comincia con un discorso di Hillary Clinton alla TV si finisce per riflettere sul clima rinnovato in cui "piacciono decisioni forti" dopo l'elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Eppure tutti questi elementi attuali e talvolta "di tendenza" sono irriconoscibili, lontani dalla superficialità e dalla partigianeria che altrove li rendono simboli o armi contundenti.
Il padre di Caitlin è un militare patriota e repubblicano convinto che compra per sé e per l'amata figlia un cappellino ufficiale Make America Great Again, la madre di Fraser è un colonnello che arriva alla base di Chioggia con la moglie al seguito, pronta a bollare i vicini come retrogradi e incapaci di comprendere le pulsioni dei propri figli. La serie si astiene dal giudicare l'una o l'altra parte, ma anzi crea un parallelo evidente tra la ricca newyorkese ribelle e lesbica Sarah e il maschilismo repubblicano di Robert, tra l'estroverso e talvolta strafottente Fraser e la posata e seduttiva Caitlin.
Ciò che rende diversa We Are Who We Are dalle tante serie viste in questi anni che partono dagli stessi presupposti è che la sua storia è filtrata attraverso la sensibilità, l'estetica e l'etica di Luca Guadagnino, un regista cinematografico dal passato e dal tocco autoriale mai troppo distanti. Nonostante il soggetto sia stato sviluppato anni fa da Paolo Giordano e Francesca Manieri, nonostante Guadagnino entri nel progetto su invito del produttore Lorenzo Mieli solo nel 2017, We Are Who We Are è innanzitutto e soprattutto una creature guadagniana.
L'idea della base militare statunitense - acceleratore di dinamiche inclusive ed esclusive, microcosmo delle diverse identità che vanno sotto il nome di America, è farina del sacco del regista e influenza irrevocabilmente l'idea iniziale. Nonostante il girato digitale non sia suggestivo quanto le opere in pellicola di un cineasta la cui estetica si è sviluppata su supporto tradizionale, la cura del dettaglio tecnico sulla serie è ancora una volta riconducibile al regista, così come una serie ricorrenze musicali, registiche e tematiche che via via creano una serie di rimandi e giochi interni, fino a rendere le famiglie di Fraser e Caitlin un vero e proprio ecosistema.
Un film in otto episodi
Un risultato ragguardevole, che ha poco a che fare con la serialità a cui siamo abituati oggi. Spesso in TV si utilizza il cospicuo minutaggio a sua disposizione non tanto per rendere più complessa ed estesa la propria narrazione, ma per dialogare con lo spettatore con una serie di rimandi interni volto a renderlo un fan, ad accontentarlo e stuzzicarlo nei suoi istinti più basilari. We Are Who We Are funziona come serie episodica (o per meglio dire, divisa in atti) ma è costruita con la tipica economia di un film in cui minutaggio rendere ogni passaggio essenziale, ogni minuto speso a creare un'atmosfera o un dialogo utile rispetto a quanto visto prima e dopo.
La sua vicinanza al mondo del cinema è diretta causa del grosso limite della serie. Immaginandola come un lungo film di otto ore, il primo episodio sarebbe una sorta di clip introduttiva, disorientante e inconcludente. La serie - intesa come tale - comincia ad acquisire un senso alla fine del secondo episodio e un ritmo dal terzo in poi. Il problema è che se a un film siamo abituati a concedere una ventina di minuti per convincerci, con la sovrabbondanza produttiva di serie in circolazione un titolo deve convincere sin dal suo pilota.
Onore al merito a Sky e HBO per aver lasciato al regista e al suo team una così ampia libertà creativa. We Are Who We Are è di certo una serie che finisce sotto il cappello delle produzioni autoriali, ma lo fa non tanto per ragioni estetiche, ma per la fortissima influenza che il regista esercita sulla sua evoluzione, senza prendere per mano il pubblico o metterlo a suo agio a tutti i costi. Anzi. Più la serie si avvicina ai suoi picchi (gli episodi quattro, sette e otto) più l'impatto guadagniano è tale che riecheggiano scene e temi passati, persino qualche rimando autobiografico nel personaggio di Fraser, che con Guadagnino sembra condividere molto più dei gusti musicali.
Potere e controllo
L'aspetto più interessante - ma potenzialmente respingente per il pubblico - è che non sembra esserci che un filtro minimo da parte della produzione. Siamo molto lontani dalla versione "per tutti" del regista, di quel Chiamami col tuo nome in cui è evidente che l'influsso della produzione leghi in più punti le mani a Guadagnino, che all'inizio della produzione fece capire chiaramente che non aveva nemmeno troppa voglia di avvicinarsi a quel progetto.
Stavolta invece il trasporto è più evidente e il tono ricorda progetti più sentiti del regista italiano, come Io sono l'amore, A Bigger Splash e persino qualche prova molto lontana nel tempo e dimenticata. Il risultato è un titolo che sarebbe riduttivo rinchiudere nel recito adolescenziale e/o queer, dato che i colpi migliori li assesta nel comparto degli adulti. Guadagnino è interessato fino a un certo punto al coming of age, sembra piuttosto attratto dai rapporti di forza tra personaggi legati sentimentalmente.
In questo senso è tra il quartetto di genitori dei protagonisti che si consumano i passaggi migliori di We Are Who We Are, che fa sembrare acclamatissime serie a tematica queer delle bambinate. Sarà per vissuto personale, sarà per età anagrafica, sarà perché lontanissimo da ogni pretesa di politically correct, Guadagnino riesce a ritrarre personaggi queer e liberal ammantandoli delle stesse ambiguità di tradizionali coppie eterosessuali e repubblicane, sviscerando fuori la manipolazione, la forza e la debolezza di ogni coppia.
Luca Guadagnino si conferma una firma a parte, a stretto contatto con il contemporaneo (che racconta non per interposta persona) ma comunque impermeabile a tutta una serie di filtri e stereotipi che la società e il mondo culturale vi applica. Tutto il resto, dal cast ricco di giovani promesse alla cura grafica dei titoli, è frutto di una disciplina che Guadagnino sa imporre e far fruttare, con beneficio di tutti. Non è un Sorrentino che, liberatosi dalle pressioni esterne dopo la vittoria dell'Oscar, straborda ed esagera. È un regista che, lasciato libero da condizionamenti, non perde il senso della misura e sa rendere personali progetti creati da altri. Non è la serialità ad aver sedotto Luca Guadagnino, è il regista ad aver preso le risorse di questo mondo in continua espansione per tornare a raccontare ciò che gli sta a cuore.
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