Anthony Hopkins ha confessato di temere ogni volta sul set che quella che sta dando possa essere la sua ultima interpretazione. A 83 anni, l'attore inglese è il più anziano vincitore di Oscar vivente nelle categorie attoriali, grazie alla sua memorabile, potente performance in The Father - Nulla è come sembra di Florian Zeller. Un film che esiste perché Hopkins ha accettato l'offerta del drammaturgo francese Florian Zeller a diventare protagonista della riduzione cinematografica della sua opera teatrale più famosa.
Zeller voleva da tempo realizzarne un film, ma solo a condizione di trovare gli interpreti giusti. Attori nel gotha dell'interpretariato cinematografico e attoriale britannico, come Oliva Colman, Mark Gatiss, Olivia Williams. Tutti notevoli, ma comunque gregari rispetto ad Anthony Hopkins, il protagonista indiscusso della pellicola, la prima scelta di Zeller per il ruolo. Il regista era così conscio dell'importanza di averlo nel progetto da cambiare il nome al protagonista della storia ribattenzandolo Anthony, per mettere a suo agio il grande interprete teatrale.
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Il punto è proprio quello: quanto si può essere a proprio agio a 83 anni a interpretare un anziano borghese e colto, padrone della propria vita e di un bell'appartamento a Londra, il cui mondo precipita nell'incoerenza e nell'assurdo a causa della demenza senile? Quanto sia stato angosciante interpretare questo ruolo solo Hopkins lo sa davvero. Quello che possiamo capire noi spettatori è quanto un attore dall'approccio classico, "teatrale" come lui sia qui in grado di trascinarci nel mondo contraddittorio della malattia.
Dentro la demenza senile
Da Amour a Still Alice, sono moltissimi i film connessi a grandi performance di veterani che esplorano l'orrore della vecchiaia e della malattia. The Father è un'aggiunta importante in questo panorama, perché riesce a essere un'esperienza profondamente immersiva nel mondo del malato. Visto non attraverso gli occhi rigati di lacrime di un figlio che non viene più riconosciuto e che è costretto a istituzionalizzarlo, ma attraverso il punto di vista di chi perde controllo sul mondo.
Grazie alla sceneggiatura e alla capacità di Hopkins di mantenere la sua forza caratteriale anche nei momenti in cui il protagonista è più fragile e confuso, The Father rende chiarissimo il vero dramma delle malattie neurodegenerative, il problema alla base della lotta disperata di anziani che non vogliono lasciare le proprie case, non le vogliono vedere abitate da badanti, non vogliono venire ricoverati in una casa di cura. Zeller e Hopkins mostrano come non manchi l'orgoglio e la paura, ma alla base ci sia un problema di prospettive.
Da dentro la mente del malato infatti il proprio sé appare ancora pienamente coerente, autosufficiente, in grado di comprendere la realtà. È quest'ultima che comincia a perdere di coerenza e di senso, mentre la progressione della malattia annacqua i piani temporali, confonde i volti, cancella interi capitoli della propria vita e cambia l'aspetto degli ambienti e delle fisionomie da un minuto all'altro, generando paranoie, talvolta violenza. Anche la consapevolezza di avere qualcosa che non va è altalenante, dato che la mente subisce un continuo reset della memoria a breve termine. I ricordi più vividi del passato invece tornano a splendere, con conseguenze sconcertanti per i parenti ma del tutto logiche per i malati.
The Father è un'esperienza potentissima perché grazie alla sceneggiatura viviamo dentro il mondo da incubo di Anthony, riuscendo però talvolta a uscirne, o quantomeno a interpretare i segnali di quanto sta accadendo. In questo senso le performance del resto del cast sono essenziali. Si sente una fitta al cuore di fronte al primo piano della figlia Anne, interpretata con pragmatismo e affetto da Olivia Colman, la prima volta che il padre non la riconosce più, o quando le rivolge parole orribili ma del tutto coerenti all'interno della realtà allucinogena in cui vive.
Oscar 2021: meglio Boseman o Hopkins?
Il più grande di tutti però è proprio Hopkins, gigantesco in un ruolo di cui per anagrafica comprende di certo le angosce, ma che spinge in territori emotivamente devastanti per qualsiasi spettatore, forte di un'esperienza pluridecennale. Se la sua interpretazione si apre in maniera abbastanza classica, con un approccio dalla dizione perfetta e dalle cadenze impostate, man mano che il film prosegue la relazione simbiotica con lo spettatore diventa più forte, arrivando a un naturalismo estremo, senza dimenticare l'immedesimazione nel suo personaggio e nei familiari angosciati.
In questa prospettiva Hopkins è capace di esporsi con una fragilità tale da colpire il cuore. Considerando poi quanto sia comune l'esperienza di vedere un familiare prossimo vivere la stessa angosciante situazione, non è difficile capire perché questa performance - una delle migliori della sua blasonata carriera - sia valsa un'Oscar. Di fatto è Hopkins a dare un'umanità e profondità a un ruolo che potrebbe fermarsi a un racconto potente ma comunque di maniera, persino un po' manipolatorio, giocato sui sentimenti. È la sua esperienza ma anche la sua incredibile passione per la recitazione che gli permettono di lanciarsi dentro l'abisso nero del personaggio senza rete.
Questo rende la performance di Hopkins più potente e autentica di quella - differente ma parimenti apprezzata - di Chadwick Boseman. Il grande vincitore annunciato dell'Oscar ha perso contro Hopkins la sua statuetta non perché la sua interpretazione non fosse all'altezza, ma perché entrambe si fondano su una forte carica emozionale e carismatica, con esiti differenti Quella di Boseman di un suonatore di tromba e compositore afroamericano ambizioso non riesce però mai a uscire completamente da una dimensione teatrale e di performance, con poi l'aggravante che il film insiste sulla stessa in maniera molto calcolata e senza l'eleganza registica di Zeller.
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