Che Minari sia stato scambiato per un film straniero dal pubblico statunitense dice pochissimo del film in sé, ma è piuttosto indicativo di una certa ristrettezza di vedute in una nazione in cui qualsiasi lungometraggio provvisto di sottotitoli e parlato in un idioma diverso dall'inglese viene automaticamente percepito come straniero. Ristrettezza di vedute verso cui aveva puntato ironicamente il dito Bong Joon-ho in uno dei tanti discorsi di ringraziamento tenuti nel febbraio 2021, quando il suo Parasite ha trionfato durante la notte degli Oscar 2020.
Un mondo di cinema si nasconde oltre un ostacolo di qualche centimetro di altezza appena: i sottotitoli, aveva chiosato il regista, alludendo con bonaria ironia al vizio tutto statunitense di considerare i film sottotitolati come "stranieri", percependoli come materia di disquisizioni intellettuali avulsa dal divertimento e dalle emozioni del comune spettatore. Anche in Italia i film in lingua originale sottotitolati non sono così diffusi in sala, ma il consumo di pellicole non italiane è diffuso e nettamente dominante.
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Questa breve introduzione è necessaria perché vedendo questo film e analizzando l'ondata di stupore e commozione che ha generato è bene ricordare in quale contesto è nato e ha conquistato il suo successo.
Un'esperienza autobiografica e molto americana
Minari è un film fortemente autobiografico, nato da una serie di appunti dello sceneggiatore e regista Lee Isaac Chung. A corto d'idee e senza un successo degno di nota alle spalle, il regista si è dato un ultimatum: provare a fare un ultimo film e, se fosse caduto nel dimenticatoio come i precedenti, passare a un'occupazione "normale". Con già in tasca un contratto per insegnare a scuola, Lee Isaac Chung butta giù le sue memorie d'infanzia mentre siede al tavolino di un caffè, nel 2018. Ricordi sconnessi di un periodo trascorso nell'America rurale, insieme al padre coltivatore in Arkansas e alla madre, poco entusiasta all'idea di vivere in una "casa su ruote" per inseguire il sogno bucolico del consorte.
Lee Isaac Chung è figlio d'immigrati coreani. È cresciuto in un'America rurale che sogna la realizzazione ma si scontra con le difficoltà economiche. Una realtà che per gli artisti spesso diventa un deficit, un passato da nascondere o espiare, tentando di emulare la sensibilità dei colleghi di città. È stato così sia per Lee Isaac Chung sia per Willa Cather, la scrittrice di cui pensava di adattare il romanzo La mia Antonia, quando era a corto d'idee. Proprio in quelle pagine Lee Isaac Chung ha trovato un'esperienza simile alla sua, anche nel senso d'inadeguatezza di chi sa che il mondo culturale statunitense vive e respira nelle metropoli.
La sua sceneggiatura - di cui per un certo tempo ha nascosto le origini autobiografiche - convince gli attenti produttori di A24. Sarà l'ispirazione di Cather, sarà l'autenticità del vissuto rielaborato in Minari, sta di fatto che ne esce un film intenso ed emozionale, dall'atmosfera familiare che parla al pubblico, trasversalmente. Nel piccolo David (Alan S. Kim) rivivono le memorie di Lee Isaac Chung, ma si riverbera anche un'esperienza autenticamente americana: quel del sogno del benessere facile che si scontra con una realtà dura, (in)differente.
Un padre, una nonna, un bambino: l'America di Minari
Minari si muove su tre binari differenti. Quello del piccolo, spensierato David, già pienamente assimilato dalla mentalità statunitense, che si scontra al contempo con la cultura coreana incarnata dalla nonna e con i primi contatti con persone al di fuori dal nucleo familiare, che gli fanno notare la differenza dei suoi tratti somatici, la sua non americanità. C'è poi la parabola di Jacob (ruolo per cui Steven Yeun ha strappato la prima nomination agli Oscar), un uomo che pensa di aver compreso il segreto del sogno americano, di poterlo fare suo con facilità, scontrandosi con la sua stessa superficialità e noncuranza vero i congiunti. C'è infine l'agente portatore di amore e caos, la nonna Soonja interpretata da Yuh-Jung Youn (anch'essa nominata agli Oscar 2021). Arrivata in America per soccorrere la figlia e tentare di salvarne il matrimonio, porta con sé (letteralmente e spiritualmente) la Corea, che i nipoti percepiscono già estranea.
Queste tre linee armoniche si fondono in una sinfonia familiare che riesce a proporre i più classici elementi del cinema emozionale, senza risultare ruffiana. L'effetto sortito sull'Academy è evidente: 6 nomination e tutti innamorati del piccolo Alan, spontaneo e pieno d'energia. A un occhio appena più distaccato e cinico Minari appare ricco di emozioni sì, ma anche di compromessi e limiti, a partire dalle due donne di famiglia - la moglie e madre alla ricerca d'indipendenza e la figlia modello - a cui viene negata un'evoluzione, la ricerca del proprio sogno americano.
Minari si collocata in un momento interessante della storia della famiglia Kim: non sceglie la prevedibile carta dell'arrivo negli Stati Uniti, dello shock culturale di chi s'immerge in una nuova cultura e realtà. Tuttavia si apre con un cambiamento radicale: la famiglia ha lasciato la California, dove ha trascorso un decennio, per inseguire il sogno di Jacob, in un territorio rurale, lontano dalla comunità e dai servizi, intriso di una religiosità intensa.
La forza spontanea del sogno americano
Tuttavia nel finale Minari sembra tradire tutto quello che le premesse della storia lasciavano a intendere, per far trionfare su tutto il nucleo familiare, a costo di rendere inconcludenti e incongruenti le parabole di molti personaggi. Forse questo è l'elemento più statunitense di un film che per tematiche, atmosfere e morale (da interdersi anche in senso spirituale) è lontano migliaia di chilometri dal cinema coreano. Minari affonda invece le sue radici in tutta la letteratura dei pionieri, nei Falkner, nei Twain e nelle Cather, in quel continente rurale fatto di promesse tradite e delusioni tenute a bada dal ciclo della natura e dai legami di sangue.
Arrendersi a ciò che è spontaneo, come il Minari o il fallimento, è il traguardo. Se il fuoco dell'ambizione non consuma i legami personali, ci pensa il fuoco vero a consumarne spazi, risorse, costringendo tutti a stringersi un po' più vicino, a sacrificare il proprio sogno individuale in un'alleanza di sangue. Minari è un'ottima sceneggiatura e una regia discreta, ma quel che gli difetta in coraggio viene ampiamente colmato dall'emozione da cui è stato generato, che sa trasmettere allo spettatore.
Minari è la prova dell'efficacia del sogno statunitense, che cresce senza sforzo nelle menti di coloro che arrivano da lontano, senza stravolgerne la cultura, ma mettendo lentamente radici, espandendosi, proprio come l'erba spontanea che dà il titolo al film più autenticamente statunitense del 2021.
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