Queer è l’istantanea intima, intimista e spezzata di un uomo solo, abbandonato e incapace di una realizzazione definitiva; sospeso in un limbo che ne attenua l’attesa e il dolore, passando fra i miasmi della stessa vita che lo accarezza e allontana, trova e abbandona in un deserto di ombre lontano da casa e dalle proprie origini culturali. Diretto da Luca Guadagnino e disponibile nei cinema dal 17 aprile 2025, quello che sfila sul grande schermo è un racconto per immagini in cui si scorge fin da subito il regista stesso: lo si percepisce nella delicatezza di alcune riprese e inquadrature, nel modo in cui vengono catturati i protagonisti della vicenda, nella loro costruzione formale e in quelle geometrie estetiche di fondo continuamente tradite dall’imperscrutabile umano.
Dall’insondabile di un intimo che cerca e trova, si perde ed emerge nel sudore di cento e più sigarette fumate all’ombra di un mondo apparentemente immobile, si genera l’essenza più fisica di Queer, quella più diretta e senza fronzoli, in cui i corpi e gli oggetti sfilano seguendo le pose di una poetica cinematografica immediatamente familiare eppure inaspettata per certe sue scelte. Si avverte tutta la voglia di fare e di esprimersi di Guadagnino in questo lungometraggio: la si percepisce nei momenti parlati e nei silenzi, nelle scelte di regia e nella costruzione musicale di un viaggio che avvolge e spiazza, disincarnandosi dagli stessi moti classici del narrare cinematografico di un regista che parla con la macchina da presa.
Riempire un vuoto
Entriamo negli eventi di Queer passando direttamente per la vita, gli incontri e la routine di William Lee (portato sul grande schermo da un magnetico Daniel Craig), un uomo che attraversa la propria esistenza fra i locali di una Città del Messico tanto lontana dal nostro presente quanto vicina in alcune sue caratteristiche più profonde. Gli anni ’50 stanno nascendo e facendo il proprio corso, mentre Lee si relaziona con una banda di “gringos” che, come lui, hanno abbandonato casa e radici per rifugiarsi in questa sorta di limbo in cui perdersi e inebriarsi, tentando di essere se stessi, di trovarsi gli uni con gli altri, lontani dai giudizi o da un mondo che pare non accettarli e comprenderli appieno.
Fra i fumi di una vita in cui frivolezze e pettegolezzi sono all’ordine del giorno, fra sesso e alcool a fiumi, l’esistenza di Lee viene improvvisamente sorpresa dagli sguardi, lontani e curiosi, di un giovane attraente di nome Eugene Allerton (Drew Starkey). In diretto contrasto con tutti gli incontri casuali precedenti, il protagonista coglie e trova qualcosa in quegli occhi, una luce che lo porterà ad abbandonare le ombre precedenti e a imbarcarsi in una crociata in cui cuore, dolore e accettazione di sé si muovono di pari passo.
Tanto di sé
Come accade nell’omonimo romanzo di William S. Burroughs, a cui Queer si ispira, anche nel lungometraggio di Luca Guadagnino è possibile scorgere i moti e i modi del racconto picaresco, qui inteso nella sua accezione autobiografica. La pellicola trasla una poetica precisa e chiara in immagini che sfruttano il lato più tecnico per mettere a nudo un sentimento che va oltre la finzione, una “voglia” di narrare che diventa impulso e sincerità.
In un lavoro del genere trova una sua coerenza anche l’attenzione al fisico, a quella componente sensoriale che già in passato (guarda Challengers, ad esempio) aveva bagnato le inquadrature di un regista che torna a definire il profilmico col sudore sulla pelle, il fumo delle sigarette sempre accese, l’alcool a fiumi e tutti quegli elementi che sporcano la credibilità e la quotidianità di un racconto che si nutre, vorace, delle cose e delle persone. Il cinema di Guadagnino è sempre stato cinema sensorio, in cui la percezione dell’azione resta addosso agli spettatori oltre il narrato per frasi.
Questa cosa torna all’ennesima potenza in Queer, trasportandoci nella vita di un uomo solo che tenta in tutti i modi di colmare i propri vuoti attraverso alcuni vizi che, con gli anni, sono arrivati a definirlo in qualche modo. Lee, pur essendo socievole e spigliato, deve fare i conti con qualcosa di inesprimibile a parole, tentando di trovare un riparo alla “propria perdizione” in un amore fuggevole e fumoso. Il tema dell’amore è centrale in questo lungometraggio, il tema del legame col prossimo, corrisposto o meno, muove praticamente tutti i fili del racconto sul grande schermo.
Sulla frammentarietà di una vicenda umana e romanticamente complessa si affaccia una costruzione scenografica che ricorda da vicino il cinema proprio degli anni in cui è ambientato Queer, prediligendo un equilibrio nelle cose da set old school, in cui vediamo muoversi i tasselli di una decadenza accaldata che passa dalla dimensione della finzione e prende il sopravvento sulla stessa identità della pellicola. Se nella sua prima metà, però, Queer procede in modo riconoscibile, oscillando fra il romantico e il classico, è proprio nella sua seconda che abbraccia uno sperimentalismo, anche nella forma, del tutto inaspettato.
L’ambientazione si trasforma, prendendo le veci di una “missione” cui si sottopongono i protagonisti. Tutto si muove, ma non sono tanto i luoghi a colpire quanto la voglia di imprimere i tormenti di entrambi, passando dalla linearità al surreale, superando i limiti di una fisicità in cui sembrano scorgersi rimandi al body horror di cronenberghiana memoria, ma anche alla poetica e alle modalità di David Lynch, per fare due grandi esempi che potrebbero calzare.
Il ritmo di Queer rallenta, quindi, ulteriormente in favore di una rappresentazione diversa da prima, più astratta, che prolunga e allunga, incuriosendo con il rischio di affaticare nel ritmo e nella percezione più basilare degli eventi in corso. Mobilità e immobilità restano due elementi fondamentali nella lettura di un film impossibile da inquadrare in tutto e per tutto, e in cui troviamo una delle interpretazioni più memorabili e intense di tutta la carriera di Daniel Craig.
Commento
Voto di Cpop
80Pro
- Queer è un’esperienza cinematografica sensoriale e immersiva, con una regia attenta alla fisicità e agli elementi tattili come sudore, fumo e alcool.
- L’interpretazione di Daniel Craig è intensa e sfaccettata, restituendo con grande profondità il tormento interiore del protagonista.
Contro
- Nella seconda parte il film rallenta notevolmente, adottando uno stile più astratto e sperimentale che potrebbe risultare spiazzante per alcuni spettatori.
- L’uso di simbolismi e riferimenti al body horror e al surrealismo può rendere la narrazione meno accessibile e più criptica.
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