Suspiria è innanzitutto sconcertante. È un film imponente, un remake riscritto dall’inizio alla fine, un horror nel senso politico del termine, un’opera allegorica e femminista. È tanto, tantissimo da elaborare a una prima visione, specie nel contesto cinematograficamente ipersollecitato del Festival di Venezia.
Passatemi il termine volgare ma efficace: non è una premessa paracula quella che vi sto facendo. Anzi, è una dichiarazione onesta di comprensione incompleta che - alla luce del ritrovato feeling tra stampa italiana e Guadagnino - non sarebbe necessaria. Basterebbe accordarsi a quanti parlano di un grande film rompendo un embargo mondiale per qualche click in più sulle loro testate o sui loro profili Twitter.
Una grande regia per un horror complesso
Che Suspiria sia monumentale - a partire dal suo minutaggio e proseguendo attraverso un allestimento visivo e musicale così ricco da disorientare - è fuor di dubbio. Che Luca Guadagnino sia un grande regista, anche. La sua Berlino anno 1977 desaturata di colore (ad accezione del grigio e del rosso sangue) è ricca di immagini e momenti iconici, per non parlare della sua ossessione maniacale per oggetti di scena, i font (quello scelto per i titoli dei capitoli viene utilizzato anche per il sottotitolo) e ogni dettaglio di design.
Il suo Suspiria si presenta diviso in sei capitoli e un epilogo e fa la spola tra l’infanzia della protagonista Susie, le prove con la compagnia di ballo berlinese in cui viene accettata e lo studio di uno psicanalista che ha in cura una delle sue compagne.
Il film è una danza complessa che si muove su tre livelli. Si comincia dalle indagini del dottore, che intuisce nelle storie deliranti della sua paziente una verità pericolosa, un delirio di onnipotenza tra le mura della scuola di danza. C’è poi la lotta interna tra allieve e maestre della scuola, dichiaratamente dedite a faccende da streghe sin dall’inizio. La carismatica, geniale coreografa Madame Blanc (Tilda Swinton) è a capo di una fazione che si oppone alla direttrice Marcos, mentre qualcosa va terribilmente storto e una delle ragazze scompare.
Non c’è mistero sull’identità di streghe delle protagoniste di Suspiria, così come non c’è enfasi sull’ingenuità di Susie (Dakota Johnson) nel scoprire man mano cosa succede nella scuola. Anzi: il terzo filo narrativo è quello dedicato alla sua infanzia in Ohio, al suo strano rapporto con la madre e alla sua ossessione per madame Blanc.
Danzare contro la bellezza
La tela di Luca si fa sempre più fitta e ricca di nodi narrativi, mentre Vork, il potente e animalesco balletto al centro del film, prende via via corpo, plasmando e deformando le membra delle danzanti. La danza è uno dei tanti livelli di lettura del film, un codice dall'interpretazione non condivisa. Susie la vede come qualcosa di bellissimo, Blanc la esorta a danzare in modo che ogni movimento rompa in naso alla bellezza, alla dimensione estetica.
La danza in Suspiria è qualcosa di potente e politico, un mezzo attraverso cui si propaga il potere delle streghe, che influenza e fa cadere in trappola i testimoni inermi e le involontarie protagoniste danzatrici. Rituale, tribale, ancestrale: il lavoro coreografico prende forza dalla regia di Guadagnino esteta e a sua volta la esalta in sequenza potenti.
In tutto questo tripudio di simboli, macabri incantesimi e danze mortali, latita un po’ la componente paurosa. Suspiria è casomai disturbante e non solo per le sue immagini di violenza grafica e sessualità spinta, ma per il territorio psicologico e primordiale in cui affonda le mani.
Horror come una volta
Mentre la protagonista rimane testimone muta, presente e danzante di un film che non ruota attorno a lei, ecco che si fa più chiaro il legame politico con la tradizione horror anni ’70 del film. È l’anziano dottore a fornire la chiave di lettura: dei deliri farneticanti dei folli non bisogna temere il contenuto (magico), quanto la pericolosità che li accompagna. La stregoneria, Berlino divisa, il recente passato ariano della nazione: il simbolo diventa realtà, chi fa parte della congrega si sente giustificato in ogni azione che la protegga e ne amplifichi la forza.
Guadagnino conclude la sua fatica con un finale di enorme potenza allegorica, che restituisce con rarissima forza la fascinazione animalesca, dionisiaca e selvaggia dei baccanalia delle streghe. Prima di concedersi il suo pinnacolo espressionista e horror si è però ancora una volta rifatto alla lezione di Fassbinder, alle sue donne maestre di crudeltà. Dalla dolce Sarah all’energica Susie fino alla carismatica Madame Blanc, Suspiria è un covo di donne mai sconfitte, più che complesse, mai riconciliate.
Una visione non basta
La richiesta di Suspiria allo spettatore è enorme, le concessioni narrative pochissime. Bisogna seguire Guadagnino con fiducia e attenzione, in un crescendo in cui i nodi vengono al pettine senza mai venire sciolti, in un affastellarsi di immagini simboliche di cui solo molto dopo cominceremo a capire il senso. Suspiria è il classico film così stratificato e meditato da essere a una prima visione talvolta impenetrabile.
Ad alcuni risulterà tedioso, altri si perderanno in un vortice di spiegazioni pedisseque di questo e quello che manca il senso (e la forza) del simbolo stesso. Posto che il rischio del ridicolo involontario alla Madre! di Darren Aronofsky è scongiurato, non siamo di certo di fronte a una pellicola universale come Chiamami col tuo nome.
Suspiria è un grande film, ma la dimensione effettiva del suo genio è difficile da quantificarsi a una prima visione. Di certo in pochi sarebbero in grado di condurre un film non solo così bello, ma anche così femminista e europeo, che non pone l’accento sull’uguaglianza, ma sulla diversità. Una diversità anticamera di possibilità e incubi, fino alla spaventosa forza che il femmineo riunito in un gruppo può sprigionare. L’anno è il 1977 e non è certo un caso.
Suspiria approderà nelle sale statunitensi il 26 ottobre 2018.
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