Non è semplice seguire la “strategia McDonald’s” e Netflix lo sa bene, ma ci prova lo stesso.
Qualche tempo fa McDonald’s era un fast food con le mattonelle colorate in cui mangiare hamburger industriali accanto al pupazzo di un pagliaccio. Ora, nel suo menù, ci sono i panini gourmet firmati dagli chef e i locali, che hanno il finto parquet, vengono chiamati “ristoranti”. Netflix sta provando a fare più o meno la stessa cosa: dopo averci abituato a una fruizione inedita, fatta di minutaggi bassi e una soglia di attenzione sempre più labile, ora vuole “educarci” ai dialoghi con le pause e alle storie sostenute dalla bella fotografia. Sono arrivati i film. È arrivato il cinema. Ma gli spettatori, restano?
È troppo tardi per salvare il cinema?
Negli ultimi mesi, la produzione di film e le proposte in catalogo sono cresciute verticalmente e per l’anno appena iniziato Netflix ha annunciato l’uscita di un nuovo titolo a settimana. In un momento in cui i cinema sono chiusi, Netflix ha aperto i suoi orizzonti. Ha riportato la Loren sul set, Al Pacino in tv, il cinema nei salotti e ha firmato storie e produzioni che nei festival non si sono fatte parlare dietro, anzi, hanno conquistato spazi di tutto rispetto. In un momento storico in cui potevamo scordarci le grandi storie e i grandi nomi e in cui gli addetti ai lavori potevano spegnere le macchine da presa, potremmo dire che Netflix ha salvato il cinema. Ma c’è un grande, enorme, cortocircuito di fondo.
Il flop dei titoloni
Se andate sui social della piattaforma a leggere cosa la gente dice di Midnight Sky, film di Clooney lanciatissimo da Netflix, troverete un susseguirsi di “è lento” ed “è noioso”. Succede la stessa cosa per Mank, titolone in bianco nero che coinvolge David Fincher e Gary Oldman. Succedeva qualche tempo fa anche per The Irishman, la pellicola che ha permesso a Netflix di avere Al Pacino tra le sue fila.
Cosa hanno in comune tutti questi film?
Vogliono pazienza e attenzione. Non hanno storie veloci in cui le azioni si susseguono, non hanno dialoghi brillanti da botta e risposta, non si possono vedere mentre si butta un occhio a Instagram. Netflix ha investito molte delle sue risorse pubblicitarie in questi titoli e potrebbe anche dire che si tratta di successi, ma è davvero così? A sentire “la pancia” – e basta fare una statistica sulle migliaia di commenti sui social - in pochissimi hanno finito questi film. Tanti li hanno iniziati, ma quasi nessuno è arrivato ai titoli di coda. E poco importa perché Netflix misura le visualizzazioni (e il successo) dei suoi prodotti contando solo sui primi 2 minuti visti. Ci ha insegnato che è tutto veloce, tranne i film. Ci ha educato a episodi pop corn: saporiti, brevi, uno tira l’altro, finiscono subito. Ma allora, dopo averci cresciuto a pop corn, ha senso darci le lunghe lievitazioni? Siamo in grado di apprezzarle?
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Netflix prova a cambiarci di nuovo
Ha senso in un’ottica di posizionamento. Ha senso per guadagnarne in immagine e rispetto. Ma ci vorrà del tempo per cambiare rotta. Netflix non ha cambiato solo i nostri gusti ma anche il nostro approccio alle storie. Inventando il binge watching ha cambiato le nostre vite e ha sdoganato per tutti le serie tv facendole diventare un modello di visione. Oggi vogliamo personaggi a cui affezionarci, con cui fare lunghi pezzi di strada, su cui proiettare una illusoria socialità e grazie ai quali costruirne una nuova (“Ti sei messo in pari con la serie?”).
La nostra soglia di attenzione – secondo i recenti studi – è di circa 8 secondi, inferiore a quella di un pesce rosso. Ci annoiano anche le storie su Instagram di 15 secondi, immaginate un film di 2 ore. E Netflix ha cavalcato questa tendenza, con episodi sempre più brevi. La verità è che al primo dialogo lungo o intermezzo musicale prendiamo lo smartphone.
Non c’è più spazio per la scoperta lenta di un piano sequenza. Forse domani, ma non ancora oggi. E dopo averci cambiato la prima volta, Netflix prova a cambiarci di nuovo.
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