C'era una volta, proprio come nelle favole, un regista figlio d'arte (suo padre era il cineasta Roberto Roberti, sua madre l'attrice Bice Waleran), nato e cresciuto respirando il set cinematografico, muovendo i primi passi come comparsa del Neorealismo (un prete in Ladri di biciclette) e aiuto regista durante gli anni della Hollywood sul Tevere: Sergio Leone.
In occasione dell'accensione del canale tematico Sky Cinema Western - Sergio Leone, attivo dal 4 al 10 marzo prossimo, che celebra la filmografia di uno dei maestri assoluti del genere e del cinema italiano e mondiale.
Come tanti della sua generazione, l'adolescente Sergio Leone venne folgorato dal cinema americano proibito dal fascismo, dai fumetti di contrabbando importati dall'oltreoceano. Si divertiva ad imitare Errol Flynn e Gary Cooper. Quel mondo libero e sognante, mistificato attraverso i film di John Ford e personificato dall'eroe senza macchia di John Wayne, sarebbe stato in seguito un'attrattiva irresistibile per colui che era costretto dalle circostanze a dirigere le seconde unità dei peplum in voga per tutti gli anni 50.
Sognava in silenzio il Nevada e il New Mexico mentre si affannava con le corse di bighe e le battaglie navali con triremi. La svolta, dopo il buon successo del colpo di coda dei "sandaloni", vale a dire Il Colosso di Rodi, sarebbe arrivata in seguito con cavalli e cacciatori di taglie, consentendo alle casse del cinema italiano di racimolare molto più che un pugno di dollari.
- Sergio Leone e le favole per adulti: nasce lo spaghetti western
- I film di Sergio Leone: da Per un pugno di dollari a C'era una volta il West
Sergio Leone e le favole per adulti: nasce lo spaghetti western
La storia di Sergio Leone, per farla breve, è quella di un uomo che sceglie di inseguire un sogno nel momento esatto in cui quel sogno appare spezzato, interrotto per sempre. Nei primi anni 60, infatti, il western hollywoodiano era ormai percepito come posticcio, artefatto, creato ad hoc per instillare messaggi edificanti, tutti indirizzati a celebrare le virtù del popolo americano.
Per questo Leone, deluso da quello stesso mito che pure gli aveva riempito gli occhi in gioventù, si convinse a creare un suo West, più sudicio e spettacolare di quello a stelle e strisce, a cui pure si ispirò (al pari dei samurai di Kurosawa). È come se il cineasta trasteverino avesse lasciato a debita distanza ombre rosse e sentieri selvaggi pur senza mai perderli di vista del tutto, in un'alternanza di celebrazione e decostruzione dei codici hollywoodiani.
Cos'altro non sono i western di Leone, se non favole per adulti dalla morale ambigua? Il regista scomparso il 29 aprile 1989, dal punto di vista dei contenuti, infarcì i suoi film di bounty killer dai modi spicci, pistoleri avidi, banditi senza scrupoli, puttane. E soprattutto di dollari, oggetto del desiderio come solo nei fumetti di Zio Paperone. Quasi un sacrilegio, per i sostenitori del western classico e per i critici prezzolati dell'epoca, sconvolti dalla scomparsa pressoché totale dei tratti distintivi dell'eroe tutto d'un pezzo, sostituito da una canaglia cinica priva di ideali, col cigarillo in bocca e il poncho a celare cinturone e revolver.
Con Leone nacque in pratica un nuovo stile di eroe, più moderno e meno anacronistico rispetto ai cavalieri delle valli solitarie visti fin lì. In pratica, come sottolinea in modo impeccabile il critico Christopher Frayling, "un eroe che faceva sullo schermo tutto quello che John Wayne non avrebbe mai fatto". Senza di lui, in sostanza, non ci sarebbe stato il rude ispettore Callaghan di Clint Eastwood e neppure l'action hero anni 80, quello sì dei muscoli ipertrofici di Stallone e Schwarzenegger ma pure dall'ironia spavalda come Mel Gibson e Bruce Willis.
La forza della memoria di quel regista maniacale sta nel codice genetico del suo cinema, sezionato e poi riproposto in mille salse. I primi ad accorgersi delle grandi doti di narratore di Leone non furono i critici dell'epoca, che per anni lo bollarono come ingenuo alfiere di un cinema popolare, bensì quella generazione di cineasti statunitensi che di lì a poco avrebbe diffuso il verbo della New Hollywood. Da Spielberg a Scorsese, quasi tutti studiarono fotogramma per fotogramma i western di Leone, rimanendo affascinati da quella narrazione per ellissi e da quei primissimi piani esasperati, bilanciati da campi lunghissimi (in Leone tutto tende al superlativo, dal numero di comparse alle dimensioni del set) funzionali all'esaltazione paesaggistica.
Ovunque sono rintracciabili gli omaggi, più o meno celati, agli spaghetti western del regista italiano: la sequenza iniziale di Incontri ravvicinati del terzo tipo, il mexican stand-off de Le Iene, la trilogia messicana di Rodriguez, la battuta "Qualcosa che sa di morte" pronunciata da uno dei protagonisti di Distretto 13 - Le brigate della morte di John Carpenter, chiaro omaggio alla frase pronunciata da Jason Robards/Cheyenne nel finale del capolavoro C'era una volta il West.
Tanto, se non tutto, testimonia l'influenza leoniana sul cinema cosiddetto (post)moderno e allo stesso tempo elegge il suo cinema, a metà tra una danza di morte e il picaresco traboccante di ironia, pallottole e bottini, come ponte ideale tra la Hollywood classica e il contemporaneo, grazie al rifiuto della morale, al capovolgimento dei cliché e all'introduzione di un registro completamente nuovo.
Strano a dirsi, Leone non si è mai confrontato col cinema italiano fino allo "Zapata western" Giù la Testa, il film con Rod Steiger e James Coburn era una sorta di risposta agli avvincenti manifesti politici di quel periodo, da Vamos a matar compañeros a Il mercenario e il confronto sarebbe poi proseguito con C'era una volta in America, epopea malavitosa più volte accostata, per i toni solenni e per una ricercata eleganza stilistica, a Il Gattopardo di Visconti.
I film di Sergio Leone: da Per un pugno di dollari a C'era una volta il West
I film di Sergio Leone, alcuni li trovate nella classifica dei migliori western di sempre, colpiscono per la loro forza evocativa e per l'incredibile esaltazione che fanno dell'immagine, restituendo al cinema il suo ruolo di fondatore di miti andato più volte perduto. Ricordiamo i mantelli, gli speroni, i volti imbrattati di polvere e sudore, gli sguardi contratti in una smorfia di dolore un attimo prima della morte, le pistole dalla lunga canna. Immagini indelebili di un'epoca perduta, che non sembra la stessa raccontata nei film di Ford e Zinnemann, spesso accompagnate da una colonna sonora innovativa, la firma è quella di Ennio Morricone), sovente in grado di rubare la scena, tra fischi, vocalizzi e trombe mariachi.
Mentre il gangster movie C'era una volta in America rappresenta lo scontro tra lo spirito fanciullesco e sognante del regista e il tessuto corrotto della realtà, le restanti pellicole (tolto il peplum Il colosso di Rodi) sono rivisitazioni del mito della frontiera e di quello del cow-boy accomunate dall'apoteosi di spinte individualistiche, dall'elogio del profitto e dell'interesse personale (che altro sono, se non uno specchio in cui riflettere la società odierna?): un mercenario furbo che si improvvisa giustiziere in Per un Pugno di Dollari, due bounty killer a caccia di uno psicopatico bandito in Per Qualche Dollaro in Più e tre sciacalli alla ricerca di un bottino fantasmagorico sullo sfondo della grande tragedia de Il Buono, il Brutto e il Cattivo in cui Leone rilegge Monicelli e dà vita alla sua "Grande Guerra", il tramonto del selvaggio West e dei suoi protagonisti non è più tempo di banditi e pistoleri in C'era una volta il West, infine la grande beffa della rivoluzione Giù la testa.
Pellicole in cui l'ossessione tecnico-stilistica (un caratteristica su tutte: la rinuncia all'azione, con la conseguente dilatazione dei tempi) si somma a quella per i dettagli di scena e per i dialoghi prolissi. Cifre che fanno di Leone, ancora oggi, uno dei più abili cantastorie di sempre.
Immagine di copertina dalla locandina del documentario Sergio Leone. L’italiano che inventò l’America disponibile su NOW.
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