Il traditore di Marco Bellocchio trionfa ai David di Donatello: è davvero il miglior film italiano del 2019?

Autore: Elisa Giudici ,

Il trionfo di Marco Bellocchio e del suo Il traditore agli ultimi David di Donatello era più che annunciato, non solo nelle ore della vigilia. Se gli scommettitori davano per vincitore il regista e il protagonista Pierfrancesco Favino nelle rispettive categorie con ampio margine, è perché da tempo si era diffusa la sensazione che ai giurati e alla critica italiana in generale la pellicola sulla storia del primo importante pentito di mafia piacesse, eccome. Lo si è capito da subito, sin dalla prima mondiale al Festival di Cannes, dove l'entusiasta stampa italiana ha salutato l'ultimo lavoro dell'ottantenne regista nostrano come uno dei grandi film dall'annata, arrivando tavolta a sostenere che avesse qualche chance di entrare nel palmares finale della kermesse. 

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A posteriori quest'idea sembra un po' azzardata, ma non è sempre facile per la stampa intuire gli umori della giuria in un contesto sovrastimolante come quello di un festival importante come Cannes. Avendo seguito la kermesse a distanza e avendo tenuto il termometro della stampa internazionale giorno per giorno, trovavo curioso che alcuni scommettessero su un riconoscimento a Favino o addirittura al film in sé. Se infatti all'epoca la Palma d'oro a Parasite fu una sorpresa poco pronosticata dagli addetti ai lavori, è stato evidente da subito che la sezione principale della Croisette fosse particolarmente agguerrita e ricca di film davvero di livello. Mentre la stampa italiana salutava Bellocchio come uno dei grandi nomi dell'edizione, quella internazionale (le grandi testate statunitensi, i giornali francesi e le firme di riferimento europee) non si sono spinte molto più in là di un cenno di assenso cortese, tant'è che ad oggi il film su Metacritic raccoglie un dignitoso ma non esaltante 64% di consensi. Per fare un raffronto sensato all'interno del Festival e tra i candidati alla categoria miglior film straniero agli Oscar, il francese Les Misérables veleggia a 78. 

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Il traditore è stato sin dalla primavera il film italiano più amato dall'establishment italiano

L'entusiasmo per Il traditore può quindi essere definito tutto italiano. Di fronte a un'annata generosa di titoli blasonati (vedi La paranza dei bambini alla Berlinale o Martin Eden alla Mostra veneziana) ci si aspettava quantomeno un po' di battaglia al momento di decidere quale film italiano mandare come candidato agli Oscar, in un'annata in cui il premio per il film internazionale era già "bloccato" da Parasite e dall'agguerrita competizione europea. Invece Bellocchio si è guadagnato anche questo riconoscimento senza colpo ferire e, nonostante fosse chiaro fin da subito che nessun film italiano in generale avesse una chance di farcela ad entrare nella longlist dei nominati di categoria, la stampa italiana ha parlato di "delusione" per la "mancata nomination". 

In buona sostanza, da cosa deriva tutto questo entusiasmo nostrano per un film che a livello internazionale non ha suscitato grandi clamori? Il traditore è così italiano da essere incomprensibile o quasi all'estero ma da risultare imperdibile per lo spettatore nostrano oppure con il suo successo conferma una certa attitudine della critica e del cinema italiano nel scegliere i proprio favoriti? 

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Il traditore: vale la pena vedere il film vincitore dei David di Donatello 2020? 

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A parare di chi scrive due fatti sono oggettivi e incontestabili quando si parla di Il traditore: sì, è uno dei migliori film degli ultimi anni di Bellocchio e sì, l'interpretazione intensa e mimetica di Favino è in qualche modo epocale e da sola vale la visione della pellicola. Già nella recensione che scrissi all'epoca dell'uscita non mancavo di rilevare che in un anno in cui la storica presenza italiana in concorso a Cannes si riduceva a un solo titolo, quantomeno a rappresentarci c'era un solido film, ben scritto e ben diretto, che batteva sentieri canonici per il cinema italiano ma lo faceva con grande energia e cura produttiva. 

A mio modo di vedere Il traditore rimane però un film sin troppo canonico, che per avanzare si affida a peso morto al suo protagonista, finendo talvolta per somigliare a un'ottima fiction Rai pensata per il grande schermo. Bellocchio stupisce per l'energia che tira fuori a 80 anni e saggiamente si circonda del gotha interpretativo italiano over 40 e più (Lo Cascio, Favino, Buccirosso), scegliendo una vicenda che gli permetta di sfruttare la ricostruzione storica e il traino emotivo di un momento importante per la Repubblica. Una scelta tematica che può essere percepita come forte, ma che risulta comoda per non doverci mettere troppo di suo, rischiando poco in termini narrativi e creativi.

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Il successo critico di Il traditore si riflette fino a un certo punto sul suo comunque buon risultato in sala

Nelle recensioni di quei mesi ricorre un costante tema: quello dell'età del maestro, i suoi 80 anni celebrati con un film dall'energia e dal ritmo incalzante. È una constatazione interessante, perché permette di trovare una parvenza di novità in un progetto sin troppo classico. Anche dal punto di vista biografico Il traditore è slegato dal panorama internazionale, dal nuovo canone dei biopic che preferisce concentrarsi su un momento emblematico, su un arco cronologico breve della vita del protagonista per tentare di renderne una sintesi. Non a caso Il traditore pecca in lunghezza, incapace di scegliere quale momento rappresenti davvero il suo protagonista, primo pentito e ultimo uomo d'onore. Due ore e mezza si faticano a perdonare a storie molto più innovative e a cineasti capaci di sorprendere ad ogni svolta, figuriamoci a un film che abbiamo già visto in ogni possibile variazione. 

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L'impressione sgradevole è quindi che Il traditore sia un buon film, certo, ma che il resto del panorama italiano non abbia nemmeno avuto una chance di misurarsi ad armi pari nell'anno dell'omaggio al grande autore ottantenne Bellocchio. Sotto sotto il cinema italiano - già appesantito da tutta una logica interna di produzioni monopolistiche, sovvenzioni statali e scarsissimo ricambio generazionale davanti e dietro la cinepresa - continua ostinatamente a preferite l'usato sicuro del proprio passato. Non a caso a rastrellare un gran numero di vittorie dietro a Il traditore c'è il Pinocchio di Matteo Garrone, la più classica delle narrazioni italiane portata su schermo da un regista amatissimo anche all'estero ma qui dimentico del suo sguardo acuto e del suo stile che ha fatto scuola. Diviso tra Benigni e Collodi, la pellicola di Garrone è un trionfo di passatismo estetico e narrativo. Non a caso, anche qui la grancassa giornalistica non ha mancato di fare rumore, mentre di fronte a film davvero originali come Il racconto dei racconti era stata ben più tiepida. Se come si dice Guillermo Del Toro ha messo il pausa il suo progetto decennale sul burattino di legno temendo la concorrenza di Garrone, ora potrà tirare un sospiro di sollievo: siamo ancora di là da averne visto una lettura rivoluzionaria, capace di cancellare la memoria del classico di Comencini. 

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Geppetto porta Pinocchio a scuola
Il Garrone più convenzionale di sempre ha conquistato la sala durante le feste

Nonostante la mia delusione di fronte a un film poco ispirato in cui Garrone autore è irriconoscibile, bisogna dare merito a Pinocchio di aver macinato 17 milioni di euro al botteghino. Un risultato che trovo molto sorprendente: all'uscita dall'anticipata stampa avrei pronosticato un bagno di sangue per incassi, invece il film ha funzionato eccome durante le feste natalizie. Il traditore in primavera si era invece fermato a 5 milioni e spicci, superando quota 8 grazie alla raccolta internazionale. Considerando i nomi coinvolti, il traino avuto dalla stampa e la scarsa concorrenza interna in quelle settimane primaverili in sala, è un buon traguardo, ma non lo si può definire un risultato travolgente. L'impressione appunto è che la vittoria di Bellocchio nasca e cresca dentro un ristretto circolo di redazioni e di ambienti cinematografici italiani. 

Il passato e il futuro del cinema italiano dopo la vittoria de Il traditore

Quel David di Donatello che Bellocchio ha accettato con sorriso sornione risparmiandoci falsa modestia di rito a mio modo di vedere è soprattutto un monumento al passatismo del cinema italiano, all'ossequiosa riverenza verso i maestri (veri, presunti o autoproclamati che siano). Guardando alla cinquina di film finalisti nella categoria più prestigiosa troviamo un maestro ormai 80enne con una storia di mafia, un autore amato internazionalmente con uno dei romanzi italiani più noti di sempre (e con il suo film forse più debole di carriera), un titolo che parla di criminalità italiana come quello di Bellocchio ma lo fa con lo stile del primo Garrone in un trionfo di approccio derivativo, un classico della letteratura inglese riadattato in un'Italia dalla forte nostalgia politica e Il primo re, la vera mosca bianca dell'edizione.

Insieme a Martin Eden - ma un maniera decisamente più rilevante - il film di Matteo Rovere è l'unico, nella cinquina dei finalisti (e non solo) a tentare di fare qualcosa di nuovo, lontano dalle convenzioni del cinema italiano. Rovere si conferma non solo una figura cinematografica a tutto tondo (il miglior regista esordiente dell'anno l'ha prodotto lui) ma un autore capace di imbarcarsi in sfide importanti, con uno sguardo al mercato internazionale e un'attitudine sempre pronta a spezzare l'eterno duopolio tonale del tardo cinema italiano. Rovere se ne va altrove e rifiuta di schierarsi laddove nello scenario nostrano troviamo da un lato i film con pretese autoriali giocati su un pugno di temi e di città italiane (Roma, Napoli e Milano, criminalità, cronaca e politica), dall'altra una massa indistinta di commedie commerciali da cui è difficile che emerga qualcosa di davvero interessante. 

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Remo sfama Romolo
Il primo re è la mosca bianca di questi David di Donatello

Il vero mistero riguardante Il primo re è perché non lo si sia mandato da qualche parte, in qualche Festival, anche solo per battere un colpo e dire: ehi, il cinema italiano nel 2019 non è solo criminalità e nostalgia del comunismo, c'è anche un kolossal da 9 milioni di euro con una scena d'apertura dal livello tecnico che guarda a Hollywood e una componente action e di genere quasi ignota nei film che vi propiniamo ogni anno. Se all'estero è ancora tutto un parlare di Fellini e Visconti è perché continuamo a presentarci come i loro eredi spirituali.

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Le scelte dei David riflettono le preferenze del cinema italiano, anche quando è l'estero a suggerire che proporre qualcosa di nuovo potrebbe essere la soluzione vincente. Vedere Suspiria di Luca Guadagnino - che nonostante i salamecchi raccolti dopo Chiamami col tuo nome rimane il paria del cinema italiano - non vincere nemmeno un premio tecnico pur avendo una produzione internazionale che lo posiziona fuori scala per mezzi e risultati è indicativo dei messaggi passivo aggressivi i David lanciano nella sua direzione. Caso curioso: il film ottiene lo stesso risultato de Il Traditore su Metacritic, ma non vince nulla. Per non parlare di quando film come questo e i suoi artigiani vengono completamente ignorati in partenza (penso per esempio al lavoro della portentosa Giulia Piersanti sui costumi di Suspiria).

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Se i David lanciano un messaggio forte e chiaro è che la presa di chi guarda alla tradizione con riverenza e al nuovo con sospetto e ancora ben salda. Siamo lontanissimi dall'intavolare un discorso di diversificazione di voci tra i nominati, dato che le uniche categorie in cui la presenza femminile è scontata sono quelle attoriali dedicate. Ma esisteranno brave registe italiane da qualche parte, viene quasi da chiedersi. La vera sfida sembra ancora una volta quella di riconoscere il presente se non di aprire la strada al futuro, laddove si continua ostinatamente a premiare chi replica bene sé stesso. 

Il traditore è il film italiano migliore del 2019? Forse sì, forse no. Lo è senza ombra di dubbio per quella fetta di cinema italiano che ha molta paura di cambiare e osare qualcosa se non di nuovo, di diverso, oltre la solita commedia o film impegnato, dimentico di una tradizione alternativa fatta di generi, B movie, folli sperimentazioni che ha reso grande il cinema italiano nel mondo. Tanto quanto Fellini e Antonioni.

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