Già nel 2007 la serie Boris fotografava la dipendenza del cinema italiano da Pierfrancesco Favino. La "fuoriserie italiana" non a caso è un grande specchio del mondo culturale e cinematografico italiano: ha dimostrato in innumerevoli occasioni di prevedere il futuro con precisione stupefacente, rivelandosi sempre più amaramente attuale ogni anno che passa.
Nella terza stagione di Boris, il personaggio del comico Martellone spiega di non essere riuscito a ottenere alcuna parte di rilievo in tempi recenti a causa di Pierfrancesco Favino, che fagociterebbe tutte le parti importanti e interessanti a disposizione. Quindici anni dopo questa scena di Boris è più attuale che mai. Basta pensare che due dei ruoli maschili più ficcanti e di pregio presenti nei film italiani inviati al Festival di Cannes nelle ultime edizioni - quello di Felice in Nostalgia di Mario Martone e quello di Tommaso Buscetta nel film di Marco Bellocchio Il traditore (2019) - sono interpretati proprio da Favino.
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Quello di Favino sul cinema italiano è di fatto un regno su cui non tramonta mai il sole, anno dopo anno, festival dopo festival. C'è solo un altro attore che ne insidia il primato e che, similarmente, cannibalizza molti dei grandi ruoli a disposizione: Toni Servillo. Non a caso, un altro habitué dei Festival del cinema.
Favino è davvero così indispensabile?
Nessuno è indispensabile, ma avere a propria disposizione un talento come quello di Pierfrancesco Favino facilita di parecchio le cose. Nostalgia di Mario Martone è l'esempio perfetto della poliedricità di questo interprete, qui alle prese con la stessa sfida dei colleghi Alessandro Borghi e Luca Marinelli in un altro film italiano in concorso, Le otto montagne. Tutti e tre se la sono dovuta vedere con un accento molto differente dal loro, da rendere il più fedelmente possibile su grande schermo.
Sfida stravinta da Favino. Nel film di Martone interpreta Felice, un uomo nato e cresciuto nel rione Sanità di Napoli, che ha lasciato di tutta fretta all'età di 11 anni. Un parente lo ha messo su un aereo per il Libano, spedendolo a lavorare con lo zio con una ditta di costruzioni edili. Nei quarant'anni successivi Felice ha girato il continente africano, ha trovato l'amore e si é stabilito a Il Cairo, sposando una donna egiziana e convertendosi all'Islam.
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Dopo quarant'anni Felice ha deciso di tornare nella sua Napoli, da cui si era tenuto ben lontano. L'occasione è fornita dalle precarie condizioni di salute dell'anziana madre e dalla necessità di prendersi cura di lei. Arrivato in città, Felice viene travolto dalla nostalgia del titolo, incapace di lasciare il suo rione, che percorre in lungo e il largo mentre riemergono poco a poco i ricordi della sua tormentata amicizia con Oreste, divenuto un boss locale noto come Malommo.
È la performance di Favino a far funzionare Nostalgia, rendendolo un titolo di Martone del tutto allineato con i temi che sono cari al regista, ma rivelandosi meno ingessato e più contemporaneo del solito. Il lavoro sul parlato di Felice è davvero impressionante. Favino rende con eccezionale accuratezza il particolare accento che sviluppano le persone che hanno smesso di parlare da molto tempo la loro lingua madre e riprendono a farlo all'improvviso. Non solo si cimenta in parecchie battute in arabo, conversando al telefono con la moglie. Il suo parlato in italiano ricalca una cadenza tipica delle lingue medioerientali, che Favino accompagna con una gestualità riconducibile alle persone provenienti da questa particolare area geografica. Per giunta nel corso del film modula un lento ritorno a una padronanza maggiore della lingua, con incursioni sempre più importanti dell'intonazione e del vocabolario partenope.
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Favino è un "pacchetto completo"
Vestito di giacche eleganti e magliettine sottili, sarebbe sciocco non notare quanto anche in Nostalgia Favino spicchi per bellezza e mascolinità: il suo fisico perfettamente allenato, le sue braccia muscolose vengono esaltate come l'ennesima bellezza nascosta di Napoli da Martone, chiaramente sedotto dal fascino del suo interprete.
Per questo la scelta di Favino è pigra, comoda ed efficace, almeno per quanto riguarda il mercato italiano. Il pubblico conosce e ama Favino, che è un vero divo di casa nostra. All'estero Toni Servillo lo batte per fama e influenza, ma in Italia Favino è più popolare e trasversale, amato tanto dai cinefili quanto dal pubblico televisivo e "casuale".
Favino insomma è un pacchetto completo a cui è difficile rinunciare: bravissimo, bello, popolare e soprattutto poliedrico, adatto a ogni occasione, ogni ruolo. Per capirlo basta fare un raffronto con un altro attore di recente molto amato da Martone, che fa da spalla a Favino nel film: Francesco Di Leva, nei panni di Padre Luigi Rega. Di Leva si era già messo in luce in Il sindaco del Rione Sanità, sempre di Martone. Qui conferma di avere un carisma e un'intensità non da poco, tanto da non farsi mettere in ombra da un Favino stellare. Di Leva gestisce bene un ruolo che rischia di diventare stucchevole: quello del prete coraggio che crea una comunità alternativa a quella camorristica nel rione Sanità, che diventa confidente e amico di Felice.
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Tuttavia Di Leva non può contare sulla poliedricità di Favino: è un interprete per cadenza e disposizione legato al territorio partenopeo, non è ben chiaro se per propria volontà o per quel vizietto non solo italiano di relegare un attore a un solo ruolo tipo. In un momento in cui il cinema italiano sembra incapace di osservare altri orizzonti oltre a quello di Napoli e di Roma, non è un particolare problema. Di Leva non rischia certo di rimanere senza lavoro, ma un ruolo tipo così specifico finisce per poter diventare una trappola.
La verità sulla Favino-dipendenza del cinema italiano - di cui il diretto interessato è incolpevole fautore - la sanno solo le alte sfere di Cinecittà e dintorni. Come pubblico però possiamo evitare di rispondere sempre e solo alle sirene di film attesi con facce già note, dando una chance a pellicole italiane che non hanno nomi blasonati su cui fare leva, premiando i registi che si prendono il rischio di scartare il Favino di turno, mettendo sotto i riflettori interpreti meno noti ma altrettanto capaci.
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